OLINSKY

Guardarsi e innamorarsi a Loch Ness                      

10 Novembre - 31 Gennaio 2025

 

a cura di Luca Scarabelli

 

 

Surplace presenta per la seconda volta una esposizione di un’opera del maestro Olinsky. In mostra la piccola tavola “Guardarsi e innamorarsi a Loch Ness”. L’opera è stata recentemente ritrovata, la sua datazione è ancora incerta, e questa è la prima volta che viene presentata al pubblico. L’arte dei grandi maestri del passato, da sempre guardata da Olinsky con ammirazione, inizia a contaminarsi con la presenta di un Topolino, che passa dal fumetto all’arte alta, come omaggio ad un eroe immaginifico, un gesto d’amore per un plagio tutto emozionale. 

Olinsky infatti dipinge storie di topolini…

 

 

Conversazione attorno all’opera di Olinsky con Paolo Sandano, depositario dell’oggetto sociologico Olinsky e dell’intera opera olinskiana, suo attento biografo e mentore, instancabile divulgatore della sua opera e pittore lui stesso.

 

Paolo Sandano: Come si può osservare, il quadro è quasi speculare, è diviso in due parti, con leggere differenze. Si possono individuare e supporre alcuni contenuti riguardanti la vita privata dell’artista come la teiera con i due prolungamenti, una ricorrenza nella sua opera, come simbolo della decadenza erotica, oppure la differenza tra le due cime rocciose, quella a sinistra potrebbe rappresentare una sorta di declino dell'individuo nel percorso della propria vita.

Luca Scarabelli: C’è un racconto dialettico e un incrocio di sguardi. Lo sguardo fa pensare al vedere e lo specchio del lago, essendo qui doppio, sono due laghi, e sono due occhi. Il dipinto ci guarda. Loch Ness e Loch Ness, un doppio mistero.

PS: Gli studi attorno a questo piccolo lavoro hanno determinato nella autenticazione delle problematiche e domande a cui non abbiamo dato ancora una risposta definitiva. La parte destra sembra di mano di un allievo o dell’artista stesso? Si sa che ha lavorato con una bottega molto attiva, ma anche dispettosa a volte, lui lasciava molta libertà ai sui allievi, che intervenivano con sapienza, non tanto direttamente sui suoi lavori principali, ma in alcuni episodi si ritrovano interventi molto decisi in tavole e tele di completamento. Sono in corso studi anche sui protagonisti pittori della sua bottega. Questo lavoro comporta uno spostamento in quella direzione, ci sono die disegni di studio che lasciano tracce un po’ equivoche. Che abbiano lavorato con il maestro anche nel momento degli abbozzi?

La parte destra è di mano di un allievo o dell’artista? Siamo quasi sicura della parte sinistra, la mano sicuramente è quella di Olinsky.

LS: La parole Love nel cartiglio è curiosa, inquadra forse una storia personale dell’artista?

PS: Sicuramente la parola stessa potrebbe rivelare un’avventura galante dell’artista con una giovane cameriera in quel di Firenze. I due volumi posti ai due lati dell’opera potrebbero essere riferiti alle sculture leonine poste nelle città lungo la costa dalmata, colonie della serenissima, una città molto cara al maestro. Durante il suo soggiorno fiorentino, Olinsky deve aver visto e studiato attentamente agli Uffizi “Perseo libera Andromeda” di Piero di Cosimo che deve essere stata fonte di ispirazione per la realizzazione dell’opera qui presente in mostra.

LS: Cosa fa pensare che la tavola di sinistra è autoriale? Ci sono particolari che indicano la mano del maestro?

PS: La pennellata morbida e disinvolta e l’atmosfera trasparente e brillante del quadro non può che confermare che l’opera è sicuramente di mano del maestro.

LS: Ci sono dei motivi o temi, influenze, che emergono e ricorrono nelle opere del periodo?

PS: In questo momento della sua attività artistica era molto interessato ad alcuni pittori dell’area fiamminga del ’600, in particolare modo di Paul Brill, suo principale punto di riferimento. Quindi in questo caso il riferimento all’arte rinascimentale si può considerare una rarità.

LS: Dove vive il maestro in questo periodo? Si conosce la sua abitudine al viaggio… 

PS: Il suo vagabondare nelle principali città europee e non solo, la sua insaziabile curiosità  hanno condotto il nostro artista nel momento della “tarda” maturità ad un momento di stanchezza, a ricercare buon “retiro” dove realizzare gli ultimi capolavori della sua produzione. Attualmente risiede nella sua casa di campagna di Cernik nella Slavonia occidentale.

LS: I disegni di studio, i progetti, gli abbozzi delle opere sono rari?

PS: Esatto. Raramente il maestro usava realizzare bozzetti per i suoi quadri: in questo caso essendo complessa la composizione del quadro egli ha realizzato alcuni disegni preparatori, presentati per la prima volta in questa esposizione.

LS: La presenza di Disney. Nella sua biografia è un faro centrale fin da quella giornata del 1946, in cui acquista Topolino in edicola, e ne rimane folgorato. Rinnega così tutta la sua arte precedente e considera lui, Disney, l'unico grande artista del XX secolo. Hai qualche nota su questa vicenda?

PS: In quel periodo il nostro artista frequentava alcuni amici nel sud della Francia e in particolare modo Picabia, con il quale si recava frequentemente al casinò di Montecarlo sperperando definitivamente l’eredità lasciata dalla madre. Durante questo soggiorno a differenza di altri artisti, dipinse paesaggi dai toni scuri e pervasi da una malinconia struggente. Decise di rientrare a Parigi, sentiva dentro di sé la voglia di giungere ad una svolta. Infatti acquistò in modo casuale una rivista a fumetti alla gare de Lyon, giusto per risollevare il suo morale. La vista di quelle immagini colorate pervase da un umorismo di facile lettura gli diedero lo spunto di inserire all’interno dei suoi paesaggi ridipinti con colori brillanti, la figura filiforme di un topastro… e da questo momento la storia continua glorificando l’arte di Walt!

LS: Altra tappa importante è lo studio dei colori con "Teoria dei colori" di Goethe. Il suo lavoro ha poi subito dei cambiamenti significativi?

PS: Olinsky, pur essendo studioso attento delle tecniche artistiche e dei testi teorici, tuttora non segue nessuna regola nella realizzazione dei suoi dipinti. Tradizionale in principio era il suo procedimento… disegno, studio dei toni, ma con l’acquisizione di una tecnica sicura, egli abbandona diciamo il manuale del pittore, procede direttamente sulla tela con colori puri e brillanti supportato da un idea generale della composizione.

LS: Ci sono artisti coevi che ha frequentato e con cui ha lavorato?

PS: Posso affermare con sicurezza, Olinsky stesso qualche anno fa’ mi confidò in modo nostalgico degli insegnamenti del suo primo maestro, il pittore naive Ivan Popec, che gli insegnò e lo guidò nell’osservazione della natura, invitandolo a guardare le cose con l’occhio disincantato e lo spirito di un bambino.

LS: Negli anni ‘70 Olinsky sembra sparito, lo consideravano morto, e con lui, ho letto che sono spariti anche numerosi lavori. Quindi la successiva storia dei dipinti falsi che ha ingarbugliato la catalogazione della sua produzione, ne sono stati individuati molti?

PS: Sì, in particolare nelle aste internazionali sono stati individuati alcuni falsi. Ma il maestro sorprendentemente li ha riconosciuti come veri! Negli anni ’30 si vociferava che un falsario di Amsterdam, un certo Han Van Meegeren abbia falsificato e venduto più di 15 quadri del maestro.

LS: Tornando al mitico Topolino. La sua musa elettrica si direbbe, lo stimolo assoluto… ha forse a che fare con il suo desiderio di attraversare la storia dell’arte gioiosamente e fanciullescamente?

PS: Sicuramente questa è la motivazione, Olinsky non solo vuole innalzare la nostra percezione visiva ad una sorte di piacevolezza, ma anche contribuire ad aprire la strada al felice connubio tra arte e vita!

LS: Per concludere, un po’ di gossip…  hai qualche aneddoto in riguardo alla famosa serata a New York a metà degli anni ’70, in cui ad una cena incontrò e litigò nientemeno che con Andy Warhol? È vero che Warhol lo provocava e lo corteggiava apertamente in modo volgare? E che quindi lui ha reagito abbastanza violentemente? 

PS: Confermo! Olinsky negli anni ’70 era già avanti negli anni, anche se allora poteva considerarsi un bell’uomo ancora piacente. Possedeva immutato un fisico atletico e la forza di un ventenne e lo spirito di un ragazzino ribelle (in fondo la vera maturità non l’ha mai conosciuta).

Andy ne fu fortemente affascinato, in particolare era attratto dai suoi baffetti alla Clark Gable. Finita la cena, il nostro artista si alzò per andare al bagno ed Andy lo seguì, e gli pose la mano… la sua reazione fu immediata, inorridita, oltre agli insulti verbali il maestro gli sputò sugli occhiali imprecando chissà quale Dio! Che dirti, è un uomo di altri tempi e visioni… Poi uscì dal ristorante furioso e non pagò il conto.

 

 

Le prime testimonianze su Olinsky, misterioso pittore di origini slave, risalirebbe alla fine del XIX secolo. L’artista tiene mostre nelle principali città europee, finché nel 1946, in un’edicola della gare de Lyon, acquista un numero di Topolino e ne rimane folgorato. Da quel momento si dedica alla creazione di un nuovo stile che mescola arte disneyana e arte europea. Dal 1995 ad oggi il suo lavoro inizia ad avere molto successo tra i collezionisti d’Europa ma negli anni Olinsky si ritira in totale isolamento e avrà rapporti con il mondo esterno solo attraverso la cauta mediazione del suo biografo italiano, il Prof. Paolo Sandano.

 


STEFANO PEROLI     

Cinque figure nel paesaggio (un quadro)                      

15 Settembre - 31 Ottobre 2024

 

 

In mostra “Cinque figure nel paesaggio”, un’opera del 2021-2024 presentata a muro senza il tradizionale telaio, e un piccolo lavoro su carta millimetrata, proveniente dalla mia collezione privata di opere di Stefano (…cinque erano le Teste nel paesaggio presentate nella sua precedente mostra del 2017). Cinque figure nel paesaggio è stato realizzato in due momenti distinti, in un tempo dilatato. Sono del 2021 le figure, del 2024 le teste; appaiono una accanto all’altra, in sequenza e nello stesso ambito spaziale, il vuoto di un paesaggio non rappresentabile, indefinito, senza punti di riferimento, è impossibile darne misura. Sono figure in praesentia nel tempo dell’immemore, figure senza sfondo che non si toccano, non si sovrappongono, non si raccontano; sono vicine ma separate, ognuna occupa la sua porzione di spazio e rimane muta alla presenza delle altre, con l’enigmatica presenza di un pene (un pene qualunque) che entra in campo dal lato destro del quadro. Ectoplasmi assisi e teste con occhi in fissa, occhi aperti ad interpellarci (in altre opere gli occhi delle sue teste sono piccole fessure, un limite del senso); qui gli altri sensi, le altre partire dell’uomo sul mondo, non sono presenti. I lavori “spettrali” di Stefano sarebbero piaciuti a Tiphaigne de la Roche, l’autore del romanzo Giphantie… del 1760. Porre uno iato, una distanza (spirito è anche un po’ medium, qualcosa che sta tra, che sta in mezzo, oltre che un mezzo…) è manipolare il senso dello spazio e aprirlo al pensiero, e per le figure e gli sguardi delle teste di Stefano (da tempo “segni” centrali nella sua ricerca pittorica) la distanza è una metafora dell’io e del non-io. Le figure, chissà se sono immagini oniriche… sono avvicinate, ma non si sfiorano, non conoscono la mutua condivisione, sono messe in dimora nel paesaggio che condividono solo come un desiderio, uno spazio del pensiero, e le figure vi si adattano, riflessive, anonime, per proteggersi dal reale. La rimessa in opera del lavoro, dopo qualche anno, testimonia il tempo aperto dell’attesa, non è per Stefano un procrastinare, un rimandare il lavoro, ma un ritrovare in sito delle possibilità, testimoniare la durata del pensiero nella stessa pratica pittorica, una dinamica silenziosa e meditativa del fare arte, in cui il rapporto con la pittura è simbiotico, sentito, legato alla costruzione della pittura come segno lento, decantato e disincantato, che segnala indicibilmente il passaggio del tempo, quello privato, quello della messa in prova e della resistenza del proprio fare pittura al reale della contingenza, dell’economia del fare pittura, nel senso proprio del prendersi cura del segno, come una sutura, un segmento del proprio essere in moto, che fa sbocciare lo sguardo dell’attenzione che è anche lo sguardo della pittura che si ri-guarda, che ritorna così, a distanza, nello sguardo del suo autore. Un tempo che non esiste alla fine… Come dichiara Stefano “dipingo solo - durante il mio senso di continuità a singhiozzo -, come dice la Rosselli, la poetessa che amo di più. Solo una mezz’ora, è una mezz’ora che funziona dato che, in fondo, il tempo non esiste. Suggerisco al proposito una lettura al testo “Alla fine degli anni novanta mollasti tutto” presente sul suo sito. Le figure aspettano e ci ri-guardano.

Luca Scarabelli

 

 

 

Stefano Peroli è nato a Milano nel 1958.

 


MARTA BALDO                                  

12 Maggio - 30 Giugno 2024

 

L’attenzione di Marta per la pittura si inquadra fin da subito attorno al valore del colore, mediante il minimo accostamento di poche tonalità, che avvicinandosi, generano mobili energie visive, per costruire “intuizioni” di paesaggi e figure, attraverso sagome evanescenti che ne definiscono la spazialità e il loro posto nella composizione, a volte giocando con la semivisibilità del mimetismo. Nella sua pittura, meditativa, quasi rituale, le figure nascono da piccole differenze rispetto al fondo, e sono determinate dal movimento leggero delle pennellate e appunto dalla tonalità dei colori che varia pochissimo, tanto quanto basta per far comparire delle forme iconiche all’interno del movimento dato dal colore stesso. La sua procedura operativa non ha nulla di meccanicistico, ma sollecita invece una continuità legata ad una intuizione mentale e a sensazioni, che si orientano a creare lo spazio attraverso una tensione e una successione ritmica, quasi musicale, con una risonanza interiore che diventa visibile. Affronta così il “vuoto” della tela per abitarlo, istoriarlo, e rendere visibile quella risonanza, come un suono variato, che con ritmo sincopato costruisce l’immagine, piano piano, giorno dopo giorno, e con grande libertà d’invenzione contingente al fare.

Il lavoro è quindi lento e meditativo, ogni segno deve essere al posto giusto per far accadere la forma e affidarsi ad una “presenza” che è come una evanescenza. Sulla superficie del dipinto si riconoscono delle linee di contorno che mettono in moto la visione, la ricerca di dati, di rapporti tra cose, tra piani e figure che sollecitano la lettura del percorso visivo, una cosa dopo l’altra, piccole isolette contigue, come le pennellate, divise ma unite, in un esercizio quasi di abbandono ad un rituale dedicato al dipingere. Per Marta il colore fa accadere le cose e i corpi delle sue figure diafane e silenziose. Queste figure, appena accennate, abitano lo spazio gentilmente e sottovoce, in qualche modo richiamano anche la sua figura. I colori difficilmente splendono, irradiano una luce quasi innaturale, un mezzo di visibilità che ha qui una funzione raffigurata, che configura il dipinto, è una regia, è un “certo stato”, un “medium conformemente al quale qualche cosa viene veduto” (Tommaso d’Aquino). Sono colori lenti e leggeri.

 

“Mi piace vedere come lentamente i corpi femminili si perdono sempre di più nella trama e nel colore”. 

 

La procedura del suo lavoro richiama l’operatività delle giornate dell’affresco, si intravedono difatti i periodi dedicate alle varie zone, “territori” che sottolineano la dimensione temporale del fare, isole di memorie della pittura, in cui gradi di intensità differenti registrano anche gli umori delle “sue” giornate, registrano nel gesto ripetuto la sua disposizione d’animo e fisica del momento, la pazienza del fare e il grado di concentrazione o di distrazione del momento. 

 

“Ogni giorno dipingo un’area del quadro e le dimensioni di quest’area sono direttamente proporzionali al tempo che ho a disposizione”.

 

Si intravedono linee di confine che nascono naturalmente dagli accostamenti in successione, è la percezione viva che divide i piani tra interno e esterno, fuori e dentro, rappresentano lo scorrere degli allineamenti, il processo del fare trasporto nella dimensione temporale. Seguiamo con l’occhio le numerose infinite pennellate e i bordi delle forme, il gesto tranquillo e ordinato che le compone, il divenire del segno. Linee colorate giustapposte, che sedimentano il colore e il gesto ripetitivo della stesura, lieve ed etereo. Alcune forme si fanno figure, vivono uno spazio indefinito in cui a stento si individua una linea d’orizzonte, la differenza tra figura e sfondo che definisce e porta l’attenzione sul primo piano, sul qui e il là, è evanescente, non c’è quasi separazione tra interno ed esterno. Sono indagati i limiti della profondità, della prospettiva, che saltano e che diventano pure sensazioni e visioni inedite. È il movimento del segno che diventa una scrittura, ordinata da sinistra verso destra, la pittura si fa spazio nel tempo, sono onde in movimento che muovono la superficie, sollevandola visivamente in alcuni punti, abbassandola in altri, in un dialogo di livelli, di flussi e riflussi, un moto ondoso dialogante di colore. Quindi variazioni e declinazioni del vedere mutuabili, energie dedicate a colorare figure/ombre e lo spazio attorno, uno spazio simultaneo segnato dall’incedere dello sguardo. Marta, così, sembra disegnare colorando, senza dichiararlo apertamente, una sorta di autoritratto multiplo e silenzioso, mediato dal segno e dal colore. 

Luca Scarabelli

 

 

 

Marta Baldo (1997) Tradate. Vive e lavora a Milano. Studi presso l’Accademia di Brera, Milano.

Mostre: Arum Pictum, Museo Tornielli, Ameno. Summer Storm, Progetto arte Elm, Milano. Mirabilis, Palazzo Meravigli, Milano. Sguardi/Blicke, Lorenzelli Arte, Milano e Frankfurter Westend Galerie, Frankfurt. Nel 2022 ha partecipato a “Landina”, evento itinerante dedicata alla pittura curato da Lorenza Boisi.

 


ELIO GRAZIOLI                                                  

Fuori dall'album

17 Marzo 2024 - 30 Aprile 2024

 

L’arte contemporanea è un dialogo per sovrapposizioni. Elio Grazioli presenta in questa mostra alcuni disegni raccolti nel libro “Album” edito per Johan&Levi. Due opere, alcune volte tre… sono riprodotte in disegni molto liberi. Opere della storia dell’arte moderna e contemporanea sovrapposte, disegnate una sull’altra o nell’altra, messe in relazione, intrecciate per svelare possibili significati imprevisti e inaspettati. Si scambiano le linee a volte, si confondono al primo sguardo, acquistano una dinamicità che mette alla prova il campo visivo e lo sguardo, qualcosa si presenta in eccesso, altro in sottrazione, ci sono dei punti di contatto, dei movimenti del segno in bilico e margini che si relazionano, strati, una tessitura ispirata. Ne è seguita una serie di letture e di testi appassionati che ne indagano il nuovo aspetto, parole e pensieri che si trovano nel libro. Copiare le opere d’arte come esercizio per studiare meglio? Per allenare lo sguardo, come dice Elio, da critico e storico dell’arte esperto. Una pratica realizzata con grande libertà, assecondata da giochi e riflessioni formali, che piano piano assecondano il disegno per tradurlo in parole, per un disegnare pensando e viceversa, alla scoperta di possibilità inedite e nuovi sguardi trasparenti. Immagini che sono più profonde della somma delle due, più misteriose. Cosa succede sovrapponendo Man Ray a Matisse, Fautrier a Giacometti, Pollock a Arp, Vimercati a Warhol, Picabia a Cattelan…? Disegna per distrarsi, per guardare infrasottilmente le cose (un campo di ricerca sempre aperto per Elio), per “pungerci”, per interrogarci, per scrivere una nuova grammatica del pensiero e per vedere cosa succede (anche).

Per l’occasione è stato edito un testo (un dialogo tra Elio Grazioli e Luca Scarabelli, tra il critico d’arte, che disegna, e l’artista, che scrive). Esplorano il senso dei loro disegni, con appunti e visioni personali che scivolano sulla linea infinita del segno, e con brevi appunti e digressioni sull’arte.

 

 

Elio Grazioli (Fara Gera d’Adda, 1954) insegna Storia dell’Arte Contemporanea all’Università di Bergamo. Dirige con Marco Belpoliti la collana di monografie Riga. Tra i libri che ha pubblicato: Corpo e figura umana nella fotografia (1998), Arte e pubblicità (2001), La polvere nell’arte (2004), Duchamp oltre la fotografia (2017), Infrasottile. L’arte contemporanea ai limiti (2018), Arte e telepatia (2020), Album. L’arte contemporanea per sovrapposizioni (2021).

 


GABRIELE JARDINI                                                      

19 Novembre 2023 - 17 Febbraio 2024

 

Titolo: Fori nella neve

Anno: 2000 

Tecnica: Lightbox

 

 

Gabriele Jardini presenta un’immagine fotografica in lightbox. È la memoria di un lavoro realizzato site specific all’aperto. La scultura originale è stata realizzata con materiali naturali, contingenti e deperibili, sulle prealpi svizzere. La fotografia è il medium che Jardini predilige e sceglie per tradurre e fermare le sue effimere installazioni negli ambienti naturali. È un artista che attraversa e abita  la  natura, immergendovi per segnarla a livello poetico, lasciando tracce, segni minimi realizzati con il materiale che la stessa natura mette a disposizione, con lo sguardo indagatore dello scienziato e quello appunto dell’immaginario del poeta. La sua è una docile erranza, un cammino a cercar cose su cui far cadere uno sguardo leggero, che gli permette di considerare alcune parti del territorio come una palestra per la fantasia e l’immaginazione, e quindi di intervenire  direi assieme alla natura, ad elaborare manufatti estemporanei carichi di tensioni, forme in divenire, decorazioni inaspettate. 

Monte Generoso, Prealpi Luganesi al confine tra Svizzera e Italia. Dicembre, 2000. Jardini, costruisce tra due tronchi di Betulla pendula un muro di neve e attende che il gelo della notte lo indurisca. La mattina seguente, è alla ricerca di grossi rami secchi di varie dimensioni. Questi rami li ha poi appuntiti e ne ha scaldato gli apici sul fuoco. Quindi ha bucato la parete ghiacciata. In “Buchi nella neve”, ritroviamo anche un sotteso omaggio ai buchi di Lucio Fontana, ripresentati e rimodellati poeticamente nel mondo reale. La realtà appare veramente tra i fori, non si apre solo lo spazio, ma proprio un paesaggio. È un artista che sa cogliere il senso delle piccole cose: lascia scorrere, lavora sul tempo, si adatta, si adegua al flusso della natura, poi seleziona, pratica l’attesa, la scelta, e alla fine porta e ripresenta la natura come segno, dentro ad una stanza, con un’immagine che ci proietta in una dimensione altra. 

Luca Scarabelli

 

 

Gabriele Jardini (Gerenzano, VA, 1956) Studia al Conservatorio di Milano pianoforte e composizione e si diploma a Brescia in Direzione di Coro e Canto Corale. La sua attività artistica inizia nel 1981 e dal 1985 al 2006 lavora direttamente nell’ambiente naturale interagendo con il luogo ed i suoi materiali. Nel 1994 e nel 2004 partecipa ad Arte Sella. Tiene personali al Museo di Scienze Naturali di Trento, alla Galleria Cavellini-Cilena di Milano, al Museo Ken Damy di Brescia e Milano, Photology a Milano, Galleria D’Ascanio di Roma, Artelife a Venezia, Acquario Civico di Milano e altre. Espone ad Architettura e Natura (curata da Paolo Portoghesi), alla Mole Antonelliana a Torino, nei Musei di Scienze Naturali di Vienna e Berlino, all’Accademia Carrara di Bergamo, al Museo d’Arte Moderna Pagani a Castellanza, all’Arengo del Broletto di Novara, Chiostro di Voltorre Gavirate.

 


RICCARDO PARACCHINI                                                          

24 Settembre - 4 Novembre 2023

 

Titolo: senza titolo (piazza Ducale)

Anno: 2000 

Tecnica: tempera acrilica su stampa su cotone

Dimensione: 210 x130

 

 

I dipinti di Riccardo Paracchini sono una testimonianza. Nel profondo è un pittore del trecento, un pittore antico che si rapporta con qualcosa di più in alto, celebra e racconta senza raccontare. Agli inizi degli anni ’90 (periodo che ha corrisposto a diverse collaborazioni e scorribande compiute con lui all’interno del mondo dell’arte, promosse e rinforzate poi con il nostro progetto della “gilda” di Vegetali Ignoti) ci fu una mostra a Lugano, intitolata “Manifestatori delle cose miracolose”. Riguardava l’arte italiana tra il ’300 e il ’400. Il catalogo esordiva così: “Imperciochè noi siamo per la gratia di Dio manifestato agli uomini grossi che non sanno lettera, de le cose miracolose operate per virtù et in virtù de la santa fede…”. Sono parole del 1356, tratte da un documento di pittori senesi. Pittori mediatori tra la vita terrena e il mondo trascendente. Il dipingere come atto di devozione. Per Riccardo credo sia un po’ la stessa cosa, ricercare l’assoluto e costruire la felicità eterna anche attraverso la pittura. L’arte è sacra.

 

A me piace sempre citare Hermann Hesse: “Arte è, dentro ogni cosa mostrare Dio”. 

Mi è sempre piaciuta per tre motivi. Uno perché è breve. Due perché è facile da ricordare. 

R P

 

Il suo linguaggio non è certo quello dei primitivi, anche se si ritrovano certe suggestioni ed affinità elettive per talune impostazioni compositive o per il rapporto dialettico con uno spazio che è ascetico. Il colore per Riccardo è determinante, è la storia della pittura. Il dipinto in mostra appartiene ad un suo progetto reiterato negli anni, a seguito di un periodo caratterizzato dal colore rosso: “Storia sulla pittura”. La pittura come allegoria ed esercizio morale. L’immagine originale è stata tratta da una rivista di moda. La figura femminile ritratta, viene rivista e rimodellata secondo la sua visione. Viene proprio rivestita di un altro senso. Avvicinandosi si riescono a intravedere i minuscoli particolari della stampa su tela che riportano all’immagine primigenia, che non è negata totalmente, ma riequilibrata e rinnovata, rivisitata dal potere salvifico della pittura e dal colore. I colori sono sempre pochi, in questo caso due; il blu (pensando agli affreschi giotteschi) e il bianco che corrisponde al corpo, alla veste. Colori assoluti e universali che contengono tutto. La figura ha qualcosa di spettrale e non ha la testa, non rappresenta e non è il ritratto di un angelo anche se ha due grandi ali che si aprono leggere e diafane. Sono ali che attivano un’idea più che un moto. Imperccioché l’opera di Riccardo ci invita in un altrove miracoloso, pur restando con i piedi per terra anche senza la testa.

Luca Scarabelli

 

 

 

Riccardo Paracchini (Arona, 1964). Ha esposto presso Museo d’Arte Moderna di Gazoldo degli Ippoliti; Civico Museo Parisi Valle, Maccagno; Chiostro di Voltorre, Gavirate; Cité International des Arts, Suisse; Studio1517, Parigi; Comune di Castel San Pietro Terme; Fondazione Bandera, Busto Arsizio; O’, Artoteca, Milano; Raffaella Silbernagl Undergallery, Milano; Galleria Vanna Casati, Bergamo; Biennale d’arte contemporanea, Museo di Teheran; DiArt, Museo arte religiosa diocesana di Trapani; Galleria Amste, Lissone; Galleria Anna Osemont, Albissola; Museo Bertoni, Varese; La Rada Spazio per l’Arte Contemporanea, Locarno; Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano; Museo Civico Villa Mirabello, Varese.

 


ALESSANDRO TRAINA                                                          

14 Maggio - 22 Luglio 2023

Titolo: senza titolo

Anno: 1988 

Tecnica: ferro, smalto

Dimensione: 192 x 60 x 6 

 

 

“Apparentemente mobili le strutture sono costrette da fasce tese. Il tempo è movimento, il movimento è sviluppo: bloccare il tempo è bloccare il movimento, bloccare il movimento è bloccare il tempo”.

Un appunto di lavoro di  Alessandro Traina; fine degli anni’ 80. L’opera “Senza titolo” in mostra a Surplace, è stata presentata in occasione della mostra “Indicazioni”, la sua seconda personale presso la Galleria Fac Simile di Milano nel 1989 (con un testo di Manuela Gandini). Per Alessandro Traina fare scultura è lavorare con lo spazio e con il tempo, per intrecciarli e metterli in dialettica - a volte oppositiva - (…ancora oggi la sua ricerca insiste su questa traccia) e costruire dei pilastri in cui la percezione è messa alla prova nel suo incedere perlustrante. In questo caso l’elemento è minimo, segmentato da rigide fasce nere, e invita ad alzare lo sguardo, a proseguire fuori… in altre occasioni della stessa serie invece, la dialettica spazio e tempo è messa alla prova in opere caratterizzate da articolate sinuosità e direzioni, da diverse combinazioni e segmenti spaziali, che diventano altrettante direzioni dello sguardo, in un gioco di movimenti apparenti, contrazioni, tensioni formali, che da una parte bloccano il tempo, dall’altra ne manifestano la regolarità, l’incedere infinito come modularità (come in questo lavoro). C’è poi l’idea del contorno, dell’ombra, del vuoto, il tempo dell’istante, e la misura della geometria sempre riattivata nella percezione dalle continue variabili strutturali. L’opera così ferma il tempo nel movimento del tempo che non si può fermare, quasi a testare la presenza della durata.  

Luca Scarabelli

 

 

 

Alessandro Traina, San Vincenzo (LI), 1957. Vive e lavora a Milano.

Ha esposto in numerose mostre personali e collettive tra cui: Attraverso l’Arte, CAMEC, La Spezia, 2022; Collegio Cairoli, Pavia, 2019; BAG, Bocconi Art Gallery, Milano, 2017-2016; galleria Artesilva, Seregno (MB) 2014; LXVII Premio Michetti, Museo Michetti, Francavilla al mare (PE) (a cura di Luciano Caramel) 2017; Astratta Due, Fondazione Zappettini, Chiavari (a cura di Riccardo Zelatore) 2012; galleria Spaziotemporaneo, Milano, 2010; Nuove Contaminazioni ‘98, Galleria d’Arte Moderna, Udine (a cura di Enrico Crispolti) 1998; galleria Plurima, Udine, 1998; Equinozio d’autunno, Castello di Rivara (TO) (a cura di Franz Paludetto) 1994; Molto Diligenti Osservazioni, Galleria Civica di Gallarate (VA) (a cura di Emma Zanella Manara) 1994; Linguaggio/Immagine, Archivio di Nuova Scrittura, Milano (a cura di Adriano Altamira) 1993; galleria Erha, Milano, 1993; Arie, Fonti del Clitunno (PG) (a cura di Achille Bonito Oliva) 1991; galleria Neon, Bologna, 1991; galleria Piero Cavellini, Milano, 1990; Il gioco delle arti, Palazzo della Triennale, Milano, 1989; Fabbrica, ex fabbrica Mida, Brescia (a cura di Massimo Minini) 1989; Premio Saatchi & Saatchi, Palazzo delle Stelline, Milano, 1989; galleria Fac Simile, Milano, 1989; galleria Neon, Bologna, 1989; galleria Fac Simile, Milano, 1987.

 


MAURIZIO ARCANGELI                                                             

19 Marzo - 30 Aprile 2023

Titolo: M. A. ? 

Anno: 1988 

Tecnica: olio su tele sagomate 

Dimensione: 100 x 49 x 6 

 

L’opera che Maurizio Arcangeli presenta a Surplace è del 1988 ed è stata presentata in occasione della sua personale presso la galleria Marconi 17 intitolata “Puntuale”.

Il titolo dell’opera? M. A. ? 

Il punto di domanda si “riguarda”, riflette su se stesso. L’opera di Maurizio Arcangeli mi fa pensare ad un incontro tra una possibile geometria e ordine del linguaggio umano e le convenzioni della sintassi. Segno di punteggiatura importante, ?, mette fin da subito in questione operatività della pittura e il suo codice: «Il punto interrogativo nero» dice Arcangeli «costruito con un telaio della stessa forma del suo soggetto, nasceva, dall'esigenza di fare un quadro che non fosse né finestra sul mondo, ne astrazione: volevo mostrare esattamente ciò che era». L’opera stessa si rispecchia nel suo statuto e nel suo codice “marcando l’intonazione”. C’è una diretta connessione con la sua ontologia, l’essere lettera corpo, lettera sguardo, lettera supporto, lettera muro, lettera spazio, lettera lettera. Significato e significante in combinazione perfetta, parola e immagine appaiono indistinti. Un modo dire per indicare il punto interrogativo, ormai perso, sembra in qualche modo definire l’opera di Arcangeli in sole due parole: punto domandativo. Puntuale. 

Luca Scarabelli

 

 

Maurizio Arcangeli, Montecorsaro (MC), 1959. Vive e lavora a Milano. 

Ha esposto in numerose mostre personali e collettive tra cui: AF-Gallery, Bologna, 2022. Ar/ge Kunst-Galerie Museum, Bolzano, 1999; Alle soglie del duemila: ultime tendenze nell’arte Italiana, a cura di Renato Barilli, Palazzo Crepadona, Belluno, 1999; Due o tre cose che so di loro…, a cura di Marco Meneguzzo, PAC Padiglione d’Arte Contemporanea, Milano, 1999; 7. Triennale der Kleinplastik, Stoccarda, 1999; Officina Italia, a cura di Renato Barilli, Galleria d’Arte Moderna, Bologna, 1997; Premio Marche 1997, a cura di Demetrio Paparoni, Mole Vanvitelliana, Ancona, 1997; Maurizio Arcangeli, Ron Griffin, Johnatan Selinger, Studio La Città, Verona, 1996; Soggetto-Soggetto, Castello di Rivoli, Torino, 1994; Europa 94. Junge Europäische Kunst in München, Monaco di Baviera, 1994; The Rules of the Games, Salvatore Ala Gallery, New York / Center for Contemporary Art, Pittsburgh, 1991; Italia ’90 – Ipotesi arte giovane, Milano, 1990; Punti di Vista, Studio Marconi, Milano, 1989; Nuove acquisizioni, PAC Padiglione d’Arte Contemporanea, Milano, 1989; Da Zero all’Infinito, Castello di Volpaia, Radda In Chianti (SI).