Artisti

Francesco Fossati, Fabrizio Prevedello, Gianni Caravaggio, Attilio Tono, Beatrice Meoni, Giulia Dal Monte, Lorenzo di Lucido, Stefano Arienti, Gabriele Jardini, Valeria Borrelli, Claudia Canavesi, Warshadfilm, Alessio Larocchi, Francesco De Prezzo, Al Fadhil, Giovanni Sambo, Massimo De Caria, Yari Miele, Giuseppe Fossati, Clara Scola, Claudia Canavesi, Luca Scarabelli, Fabrizio Milani, Luca Macauda, Sergio Breviario, Sergia Avveduti, David Casini, Gianluca Sgherri, Ulrich Egger, Turi Rapisarda, Guido Lovisolo, Ilaria Viale, Samira Guadagnuolo, Olinsky, Sebastiano Gazzato, Eva Reguzzoni, Tiziano Doria, Loredana Longo, Marco Neri, Maria Morganti, Antonella Aprile, Marion Baruch, Diana Dorizzi, Federica Pamio, Diego Soldà, Tiziano Campi, Sauro Cardinali, Daniele Carpi, Umberto Cavenago, Andrea Magaraggia, Michele Guido, Stefano Peroli, Marcello Tedesco, Joykix, Marco Andrea Magni, Meghan Boody, Giannetto Bravi, Dario Molinari, Riccardo Paracchini, Carlos Seabra, Vera Portatadino, Vittorio Tavernari, Elisa Vladilo, Ronny Faber Dahl, T-yong Chung, Francesco Carone, Giuseppe Buffoli, Carlo Buzzi, Cesare Biratoni, Oppy De Bernardo, Serena Fineschi, Daniele Giunta, Giulio Lacchini, Samuele Menin, Alessandro Traina, Pierluigi Fresia, Michele Lombardelli, Luca Pancrazzi, Armida Gandini, Giancarlo Norese, Vladimir Havlik.

 

 


Francesco Fossati

 

Hortus siccus Hortus vivus  

 

20 Novembre - 15 Gennaio 2023

 

 

 

Osservare la natura, collezionarne frammenti, ordinarli, classificarli, nominarli e raffigurarli: fin dall’antichità l’uomo ha sentito la necessità di conoscere la natura e l’erbario (hortus siccus) è stato il primo strumento per ordinare e dare forma all’ambiente vegetale al fine di stabilire un sistema razionale, comprensibile e riconoscibile,riflesso della nostra forma mentis. Raccolte di piante essiccate, trattati e successivamente libri miniati e illustrati:classificazioni della infinita varietà delle specie vegetali, raccolte e conservate.

Anche Francesco Fossati cerca, preleva, conserva, sedimenta, essicca: fa propri i gesti antichi, percorre boschi e terreni incolti, perlustra il territorio alla ricerca di radici, foglie, rami, frutti, preferibilmente di specie autoctone, spontanee, perfino infestanti. La natura generatrice offre incontri inaspettati e improvvisi, guidati dalla capacità di osservare, di cogliere la caduca bellezza del frammento e di stupirsi. La raccolta, discreta e rispettosa che ricorda l’attitudine paziente degli studiosi botanici, è alla base del lavoro di Fossati che così reperisce la materia prima con cui costruisce il suo erbario personale. Mettere in ordine, per poi utilizzare, significa anche mettere in salvo, preservare in nuove forme: il residuo naturale è trasformato in immagini attraverso procedure e tecniche memori di tradizioni e rituali popolari, come la stampa su tela ottenuta tramite l’impressione di foglie e rami secchi attraverso la bollitura, come nelle tele qui esposte Rami [1] e [2] (2022) e X [castagno],(2022). Queste tele sono parte delle Organic pictures sperimentazioni a cui l’artista si dedica dal 2016, in cui utilizza, di volta in volta, foglie e rami di specie diverse. Da questo procedimento derivano superfici impresse con delicati motivi vegetali che si ripetono ritmicamente sovrapponendosi, armonizzando la molteplicità del dettaglio in una ripetizione seriale mai identica – alcune tracce sono evidenti, altre più labili – che testimonia dell’artigianalità del lavoro e della sorpresa degli esiti della stampa ai quali partecipa inevitabilmente il caso, l’imprevisto. C’è sempre qualcosa di magico e inatteso in questo processo che fa eco a riti alchemici e a credenze tradizionali e anche a un’attitudine ludica, ai giochi di infanzia: non a caso, nell’ambito della residenza per artisti B.R.A.C.T. di Tricase (Lecce) nell’estate del 2020 Fossati ha realizzato dei “dipinti organici” insieme alla moglie e ai due figli piccoli. Hortus siccus dunque ma anche hortus vivus quello di Fossati, un microcosmo vegetale in divenire, come in Substrati (2022) sculture “viventi” realizzate con “panetti” per la coltivazione di funghi: corpi vegetali atipici che nonostante l’interruzione del processo per disidratazione continuano lentamente la loro crescita resistente.

Emerge così la doppia attitudine dell’artista nel relazionarsi con la natura, una statica (la stampa come azione che fissa un dato momento e aspetto sulla tela), l'altra dinamica (le sculture fungine nella continua trasformazione e incontrollabilità del loro sviluppo). Un erbario vivo, mutevole che va nella direzione di una creatività che nasce dalla relazione empatica con l’ambiente in una prospettiva che fa propria la lezione di Joseph Beuys: l’arte come strumento liberatorio e di crescita in grado di «dare all’uomo una nuova posizione antropologica […] collegarlo verso il basso con gli animali, le piante, la natura così come verso l’alto con gli angeli o gli spiriti». Fossati testimonia questo legame, consapevole che lo sguardo dell’arte, nella sua dimensione sospesa, lascia intuire sensibilmente la vita che sta intorno a noi.

Rossella Moratto

 

 

Francesco Fossati (1985) è artista visivo e forager di piante selvatiche. La sua ricerca ha come focus il rispetto della natura e la sostenibilità ambientale, realizza opere con il minore impatto possibile, ha creato eco-giardini, prodotto pigmenti e colori a olio con sostanze naturali e utilizzato pratiche di coinvolgimento sociale e manovalanze locali per la realizzazione di opere di arte pubblica. Progetta e realizza displayer, supporti e cornici in collaborazione con  studi eco design utilizzando materie prime a filiera controllata o certificate FSC. 

 


Fabrizio Prevedello

Basico

18 Settembre - 30 Ottobre 2022

 

 

Verde. Luce. Interno. Luogo. Studio. Rupe. Ritratto. Sono i titoli di alcune mostre personali di Fabrizio Prevedello, ora ospitato con tre opere a Surplace. Parole come fondamenta, elementi primari che ci aprono la lettura dell’opera, come Basico, il titolo di questa sua nuova mostra. Un cavalletto a triangolo su cui posa un braccio in gesso: “Fiore” 2017-2022. Una cornice in putrelle d’acciaio e onice rosa: “Luogo” 2022. Un cerchio in acciaio zincato che contiene un ovale in gesso e bambù collocato tra pavimento e muro: “Ritratto” 2022.

 

 

Luca Scarabelli  Quando inizia a esistere una scultura?  Quando si inizia a muovere le mani?

 

Fabrizio Prevedello Una scultura esiste già da quando mi appare nella mente e ne traccio un promemoria, un semplice appunto in un taccuino. Delle molte che mi segno ne realizzo solo alcune, poche (e spesso dopo un paio danni). Queste sono molto vicine, nella forma e nei materiali impiegati, allidea inizialmente tracciata.

 

Cesare Biratoni  La scultura che appare nella tua mente molto prima di essere realizzata mi fa pensare ad una frase di Friedrich “Quando un artista non vede niente dentro di sé (…) dovrebbe evitare di dipingere anche ciò che vede fuori”. La sua esortazione ad astenersi dal fare ho sempre pensato che facesse riferimento a una sorta di eticità; è una visione romantica e idealista dell’arte oppure, secondo voi, è giusto dire che descrive quali debbano essere le premesse prima di iniziare a manipolare qualsivoglia medium?

 

FP  Voglio ben sperare che ci siano infinite vie. La mia è quella... ma mi sta molto stretta.

 

LS  Una pre-visone… che si accompagna alla misura dello spazio e alle costanti percettive. Mi sembra di intravedere anche una decisa passione” per i materiali.

 

FP  I materiali mi affascinano come, immagino, il potenziale talento di un attore può affascinare un regista. Ogni materiale ha una lunga storia di molteplici impieghi e se la porta appresso anche se utilizzato in una maniera originale”.

 

LS  I materiali che usi e che combini sono spesso pesanti, ma una volta composti nelle loro possibilità e variabili appaiono molto leggeri, come sospesi. La tua scultura è un disegno nello spazio.

 

FP  Mi fa piacere tu lo dica. Uno scultore (che assomigliava moltissimo a Brancusi) con cui ho lavorato anni fa a Berlino mi ripeteva insistentemente: ragazzo, bisogna disegnare! Intendeva dire che il colpo dato sulla pietra è efficace solo se la mente lo sa guidare. La pensava anche lui come Friedrich.

 

LS  Latto creativo è solo il passaggio per arrivare alla formalizzazione di un pensiero, di una intuizione, di unidea. Heidegger diceva che era latto più importante. Come si colloca in questa prospettiva il tuo lavoro?

 

FP  Avevo letto che Derrida allinizio non aveva idee su cosa scrivere, per cui si rivolse a Foucault il quale gli disse: scriva, scriva, vedrà che le idee le verranno. Henry Focillon nel suo Elogio della mano”, parla dellintelligenza delle mani. Mi piace pensare che abbiano ragione entrambi. Mi piace pensare che il mettere al mondo una forma” sia innanzitutto un modo di liberarsi di un pensiero, di una questione (che infatti rimane aperta, non trovo risposte), una maniera di farla uscire, di condividerla. 

 

CB  Tempo fa ci hai parlato di porte, anzi meglio di portali, e ho notato che la maggior parte dei tuoi lavori non sono aggirabili, che li attacchi ai muri, oppure al pavimento; anche la porta non si attraversa. È corretto dire che questa mancanza di un lato, di una profondità, serve a mettere in evidenza l’idea-motore dell’opera? il suo, come direbbe Foucault, dispositivo?

 

FP  Forse non è il lato che manca, piuttosto lo spazio in più, e si costruisce solo col pensiero, ognuno il proprio, in questo può avere una maggiore profondità. Sono uno scultore…come lo è Jannis Kounnelis.

 

LS  Lopera a volte la penso come ad una minima impronta che mi permette di scoprire una temporalità diversa, una temporalità altra. Cosa ne pensi? È condivisibile con il tuo modo di procedere?

 

FP  Forse non procedo proprio così... ma decisamente le sculture che mi sembrano più riuscite hanno una estensione nel tempo vasta, una a-temporalità, un silenzio. Il silenzio di alcuni alberi molto vecchi, di alcune pietre. 

 

LS  Il tempo è anche la storia. Quando penso alla storia e alla scultura gli associo l’idea della memoria, ma anche della monumentalità e a volte della spettacolarità. La tua scultura ha la coscienza di interrompere la traccia che lega storia e monumentalità. Inoltre c’è un rapporto diretto con il corpo, con i gesti minimi, come costruire una postura lentamente o pensare a due dita che si sfiorano come a due petali di un fiore. 

 

FP  Un giorno, quando io e i miei fratelli eravamo bimbi, mio padre ci stava parlando di cuccioli di gatti, forse ci disse che erano appena nati. Dopo un pò mio fratello raccolse un sasso della dimensione di un cecio e disse: guarda, un sasso appena nato!

 

CB  Ci hai raccontato che l’opera “Ritratto” rappresenta in virtù di un’assenza, e che questa immagine la ottieni usando la “camicia” che è di fatto un negativo, ovvero il gesso rosato usato durante il procedimento del calco; ma nel tuo caso, il rosato, è anche un elemento carnale? È una pelle? A me il gesso rosato mi riporta subito alla pittura. 

 

FP  Anche a me, a Tiepolo forse? Ma anche alla cipria, almeno quel particolare rosa. Due anni fa, mentre eravamo chiusi in casa, ho visto un tramonto meraviglioso, c’era del rosa mi pare, comunque un’enorme bellezza. 

 

 

 

 

 

Fabrizio Prevedello  (Padova, 1972) sì è diplomato presso l’Accademia di Belle Arti di Carrara. Dopo anni trascorsi a Berlino, nel 2002 è tornato a vivere in Italia, in Versilia. Negli ultimi anni ha esposto presso: Cardelli & Fontana, Sarzana; z2o Sara Zanin Gallery, Roma; Associazione Barriera, Torino; Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci, Prato; Palazzo Fortuny, Venezia; Galleria Comunale d’Arte Contemporanea di Monfalcone, Monfalcone; Mobiles Zentrum für ästhetische Avantgarde, Francoforte; Museo d’Arte Contemporanea, Lissone; Museo Civico del Marmo, Carrara; CAMeC - Centro Arte Moderna e Contemporanea, La Spezia.

 


Gianni Caravaggio

(Solo il cuore resta giovane)

3 Luglio - 27 Luglio 2022

 

 

Solo il cuore resta giovane, onice rosa, fagiolo azuki rosso, 2022.

Testimoni di uno spazio invisibile, bronzo argentato, 2010.

Mano destra e mano sinistra, carta fotografica, 2017.

 

Costruire una mostra è mettersi in cammino registrando cambiamenti, accogliendo suggestioni e appunti in ogni momento, proiettarsi in una possibilità sempre in divenire, interrogarsi e aprire connessioni. Attraversare con lo sguardo le opere di Gianni Caravaggio è predisporsi all’incontro con la possibilità di sentire la forma anche dove non è presente ai sensi, e scoprire che le cose hanno un ordine nascosto, che l’artista guida e sottolinea.  Il titolo della mostra, messo tra parentesi come un segreto, sembra indicare una dimensione sentimentale dell’idea, ovvero del “concettuale”, rivolgendosi al cuore della questione umana. Mi trovo di fronte alla sua opera e sento che mi rende manifesto il mondo a partire da una intuizione originaria. 

In mostra tre opere che si intrecciano silenziosamente alla ricerca dell’ombelico del mondo, dell’omfalòs, del punto cosmico, del centro del labirinto dell’esistenza e della finitezza temporale. Le opere sono modellate quasi per affinità elettive, sono energia, e sono percorse dallo sguardo che si fa astratto e dialettico. Le opere ci fanno “sentire” la periferia di una forma possibile.

Testimoni di uno spazio invisibile, è un’opera in cui qualcosa accade. I “Testimoni” sono cinque forme poligonali, di piccolo formato, con le facce tutte diverse, collocate a terra in modo che si possa “leggere” e individuare una forma più grande, disegnata dalle facce concave degli elementi, una forma “distante”, variabile, fatta di vuoto. Le forme prismatiche, con facce oblique, spigoli che interrompono il movimento della luce e superfici che la rilanciano, sono costellazioni, punti di luce, che attuano una spinta verso la forma che non c’è, ma che si intuisce con la giusta attenzione. Ecco la ricerca di un appoggio alla visione, nei rapporti tra le parti e nel dialogo determinato dalla loro distanza, che può essere sempre differente, e ancora nello spazio che ci sta davanti, dentro il quale guardiamo e con cui alla fine ci rapportiamo per via di una sorta di corporeità che anche se non “esibita” è assorbente. Una forma “appare”. È una forma che non proietta la sua ombra, composta di sostanza immateriale, una forma fantasma, emanazione amplificata di quelle presenti ai sensi.  È la parte del contemplare.

Mano destra e mano sinistra, composta dal “ritaglio” delle due mani dell’artista, determina un orientamento spaziale, una condizione topologica,  che richiama il vissuto e l’ambiente che va a toccare. La mano è il primo ambito in cui la manualità si fa attributo, nella mano chiusa e prensile (il segreto), la possibilità della tecnica, nella mano aperta (la fiducia e l’accoglienza) il gesto, il simbolo, il senso. La mano sinistra è quella del buio e della notte, del cielo stellato, la mano destra quella del giorno e della forza. Ecco le mani dell’artista che premono nel vuoto, sono un perimetro e insieme disegnano un gesto. L’apertura delle braccia e poi delle dita come parte di una rappresentazione dell’esistere, del conoscere e del produrre. È il pensiero spaziale, il piano biologico-antropologico che dilata lo spazio. C’è una tangibile presenza dell’anatomia, le mani sono vere e proprie impronte naturali che raccontano il cielo nel buio della notte e il cielo nella luce del giorno. Le “vediamo” dalla parte del dorso, e ci mettono in contatto con la parete. Alzando le mani al cielo l’uomo annuncia il suo avvento, apre lo spazio e muove il tempo. È l’afferrare e il tracciare un’impressione: al muro le forme ritagliate sfidano la gravità. Sono forme fluide: la sinistra si lascia andare e acquista una plasticità nuova, disarticolata, quasi organica. La destra resiste, rimarca decisamente il movimento dell’espressione, l’irradiamento dell’io. L’una si imprime di mondo, l’altra fa mondo, insieme suggeriscono la realtà della vita e le possibilità dell’immaginazione. (Solo il cuore resta giovane) è una proiezione, una scia rettilinea di un fagiolo Azuki rosso. Un fagiolo Azuki rosso, di un bel colore rosso scuro, piccolo e liscio, è ospitato in una scanalatura del cilindro, punteggia e rimarca una posizione, una linea che sembra un’ombra, è la dimensione tangibile e metrica di un suo aspetto quasi nascosto. I tagli obliqui delle due estremità in prospettiva sembrano infine dare figura alle parentesi che racchiudono il suo percorso solitario. È l’opera messa in prospettiva.

La materia è “ancora” compatta?  Lo sguardo dell’osservatore (del pubblico che accompagna sempre l’opera in una mostra) e dell’artista si sovrappongono, si accompagnano, diventa misura delle cose presenti che si fanno opera, è uno sguardo agito, che stimola la trascendenza, uno sguardo mosso nella funzione di evocare e toccare nuove visioni e nuovi pensieri, uno sguardo testimone nello spazio e nel tempo che disegna a sua volta nuove costellazioni di immagini e ri-progetta il mondo per toccare cosa c’è all’inizio delle cose.

Luca Scarabelli

 

 

 

 

Gianni Caravaggio, Rocca S. Giovanni (Chieti), 1968, è docente di scultura presso l’Accademia di Belle Arti di Milano. Espone presso gallerie in Italia e all’estero, tra cui kaufmann-repetto di Milano e New York, Rolando Anselmi di Berlino e Roma e Paul Andriesse di Amsterdam. Ha tenuto mostre personali presso il Kunstmuseum Reutlingen in Germania, Centro Arti Visive Pescheria di Pesaro e la Collezione Maramotti di Reggio Emilia, il Musée d’Art Moderne di Saint Etienne e il MaGa di Gallarate, Tomio Koyama di Tokyo, Tucci Russo, Torre Pelice, Castello di Rivoli, Rivoli.

 


Warshadfilm

We have the right to die together 

8 Maggio - 18 Giugno 2022 

 

 

L’atto di tracciare una forma è forse il più antico, e il fascino della scoperta che ne viene, quello sbocciare di forme in altre forme, è forse la gioia più grande che è dato provare.

Tracciare le forme, o trovarle. Sceglierle. Metterle insieme. Distruggere ciò che si è fatto, ricominciare da capo.  Questo gioco - tracciare e trovare, raccogliere e riordinare - trovare nessi inaspettati, delle figure e quindi dei racconti - è ciò che facciamo sempre nel nostro laboratorio. Per passare il tempo, per mettere insieme nuovi progetti.

Le immagini manifestano un’oggettività incerta ed effimera, e noi le carichiamo di un valore soggettivo, d’una forza d’attrazione in grado di costellare per noi delle relazioni di significato.  Alla proposta dei curatori di organizzare una mostra, abbiamo pensato, per l’occasione, di rifare daccapo questo nostro gioco.

Abbiamo aperto il nostro archivio e, immediatamente, è stato chiaro da quale lavoro saremmo partiti. Si tratta una serie di 4 stampe, tratte da un filmato di archivio, e che riporta il momento in cui Elena e Nicolae Ceaușescu, prima di essere giustiziati nel 1989, chiedono di poter morire insieme. Questa richiesta, profondamente umana, ci ha colpito perché esula dalla storia ufficiale e entra nella dimensione della storia privata e, da questo frammento, abbiamo scelto di lasciare scorrere la nostra reverie. 

W

 

WARSHADFILM è un duo formato da Tiziano Doria e Samira Guadagnuolo.

Warshad significa “laboratorio” e, infatti, la loro attività si innesta su pratiche legate ai processi del film e al al tentativo di una riappropriazione dell’intero processo di produzione filmica.Ciò è intimamente legato alla ricerca di una forma e di un linguaggio che trovano - nel grado minimo degli strumenti usati, nelle loro qualità e possibilità tecniche, nei loro processi - una corrispondenza concettuale e poetica. Hanno realizzato due film [selezionati, tra gli altri, ai Pardi di Domani al Locarno Film Festival 2019, al Torino Film Festival 2019, Festival dei Popoli 2021, Thessaloniki Film Festival 2022- dove hanno vinto il Golden alexander Award] e diverse installazioni cinematografiche, performance live, raccolte fotografiche, lavorando anche con archivi fotografici e filmici. 

 


Attilio Tono

Come il filo d'erba

 

a cura di Claudia Canavesi e Rossella Moratto

20 Marzo - 22 Aprile 2022

 

Nel 1945 Arturo Martini dava alle stampe La scultura lingua morta, un volume di poche pagine in cui lo scultore trevigiano denunciava la morte della scultura come statuaria e ne auspicava il superamento in nome della verità dell’atto creativo: «Se l’arte dei ciechi è la verità sia data libertà a quest’arte: pure forme e l’anima che è in ogni luogo e cosa; né più si confonda la vita apparente di una statua, la vera vita della scultura». 

Mi sembra che queste parole ancora attuali anche se scritte più di settant’anni fa, descrivano bene la tensione insita nel lavoro di Attilio Tono, che alla lezione martiniana ha guardato sempre con interesse. Anche la sua è una ricerca della verità della scultura che si dà nel superamento dell’idea di modellazione e nella sperimentazione sulla materia, intesa come sostanza vitale, interconnessa e in perenne trasformazione. Per Tono la scultura non è un’azione sulla materia ma un incontro con la materia: è l’innesco di un processo irreversibile che modifica il dato reale superando il concetto di forma comunemente intesa. L’autenticità della scultura risiede nella perenne instabilità della materia – di cui anche noi siamo fatti – votata alla disgregazione e a una successiva trasformazione. La scultura è questo insinuarsi discreto nel moto che ci trascende: un esperimento in cui, stabilite determinate condizioni, si dà avvio a una catena di reazioni imprevedibili dalle quali si origina una nuova organizzazione. Il processo è quello della gestazione e della nascita, comporta rischio, sorpresa, accettazione e potenziale fallimento perché la materia vive e reagisce imprevedibilmente. La forma si genera per necessità, non è estrinseca ma intrinseca alla materia: «È un discorso spontaneo, misterioso ma fatale, come lo svolgersi della nascita nel grembo materno; una facoltà naturale eterna che stupisce per la semplicità di ripetersi nel tempo come il filo d’erba».  PWWC1 è un cubo di gesso pressato, attraversato da una barra di rame e da un ramo, una costruzione precaria a rischio di crollo, contaminata dalla ritmica caduta di una goccia di vino: organico e inorganico si mescolano, si ricombinano nell’utero polveroso e insondabile dando luogo a una conformazione inedita, unicamente determinata qui e ora. Non c’è nostalgia alchemica e la materia non ha implicazioni simboliche ma è sostanza concreta, fatta di particelle che entrano in relazione e si modificano continuamente nella reciproca interazione per dare origine a una forma che non si costruisce ma si determina empiricamente. La scultura è un atto creativo essenziale: gesso, vino, legno, rame reagiscono nell’incontro, trasmutandosi in un oggetto fragile, neonato al mondo, di cui non sappiamo nulla ma che si mostra nel suo mistero svelato dall’artista che, come un archeologo, lo porta successivamente alla luce asportando delicatamente l’ammasso di polvere. Manifestare concretamente la trasformazione del reale nella forma implica l’assunzione di un altro punto di vista: significa affinare la capacità di sintonizzarsi sul tempo delle cose, esercitare la pazienza dell’attesa e rinunciare alla tentazione del controllo e al privilegio dello sguardo antropocentrico dominante sul mondo per predisporsi ad accogliere il mistero delle cose e il nostro esserne parte.  Attilio Tono ci porta al limite del concetto di scultura, ampliandolo fino a includere la dimensione dell’imperituro mutamento, e, in quanto tale, partecipe della sola eternità che possiamo esperire.

Rossella Moratto

 

Attilio Tono (1976) vive e lavora tra Milano e Berlino. 

Si diploma nel 1998 in Scultura presso l’Accademia di Belle Arti di Brera a Milano. Dal 2004 è docente di Tecniche dei Materiali presso La NABA di Milano e dal 2006 è docente di Scultura presso l’Accademia Aldo Galli di Como. Dal 2016 è uno degli artisti aderenti al progetto PILOTE di Berlino ed espone con la LC Contemporary Art di Aicurzio (MB). Nel 2022 inizia la collaborazione con la Galerie Monica Ruppert di Francoforte. È stato selezionato per residenze in Italia, Austria e Corea ed ha esposto presso numerosi spazi espositivi tra cui Semiottagono delle Murate, Firenze, La Triennale, Milano, Parco per l’Arte, Cancelli di Foligno, Fondazione Bandera per l’Arte, Busto Arsizio, Galleria San Fedele, Milano, MTN, Bologna, Muzej Savremene Umetnosti, Beograd, MAK, Wien, Chelsea Art Museum, New York, Seoul Art Space Geumcheon, Seoul, Behive Gallery, Seoul, State Academy of Fine Arts of Armenia, Yerevan, Studio1-Kunstquartier Bethanien, Berlin, Kunstmuseum Heidenheim, Heidenheim an der Brenz, Kunsthal Charlottemborg, Copenaghen.

 


Al Fadhil

Parole per la libertà

 

18 Dicembre - 6 Marzo 2022

 

Una lastra di pietra levigata e piana, nera e gesso bianco, la scuola è passata da questo e rimane nell’immaginario collettivo l’uso del bianco su nero e la passata del cancellino, che con un gesto deciso e risoluto demandava alla memoria il contenuto proprio prima registrato. Dalla metà dell’ottocento in quasi tutte le istituzioni educative, il modello inventato circa cinquant’anni prima, la lavagna, diventò la norma. Un supporto didattico che ci ha accompagnato e ancora ci accompagna, con i dovuti rinnovamenti tecnologici, tipo le lavagne interattive digitali. Ma sempre di uno schermo si parla, uno schermo su cui si iscrivono segni e storie. Ci sono state lavagne diventate famose, da quella di Einstein o Poincaré, quelle di Rudolf Steiner il fondatore della antroposofia, una scienza “occulta” che ci apre il mondo dello spirito, del soprasensibile e delle realtà sovrasensibili, e quelle che conosciamo bene, dall’impatto didattico artistico di Joseph Beuys, o ancora quella “storica” di Mauri. Le lavagne raccolgono segni e gesti, fermano pensieri che raccontano di processi scientifici incomprensibili ai più o poche lettere che aprono il mondo a chi incomincia a scoprire il valore semantico e linguistico dei segni. L’alfabeto passa da quel bianco su nero e investe oltre che il maestro, l’artista, lo scienziato, tocca il discente, chi osserva, chi impara, attraverso “letture” che possono diventare anche emozionali. Queste suggestioni aprono le porte al lavoro “Parole in libertà sulla lava- gna”.

Al Fadhil coglie l’invito dell’artista iracheno Ghaib Ghassan (Los Angeles based), e con altri colleghi artisti invitati contribuisce con una “lavagna” al progetto di Ghassan “Blackboard”. Al Fadhil aderisce a questo mettendo a disposizione del pubblico di Surplace, due “lavagne” da pittore. Sono due grandi tele dipinte di nero, sulla cui superficie tutti saranno invitati a scrivere un pensiero. Parole, brevi frasi, aforismi, sul tema della libertà intesa come elemento essenziale nello sviluppo sociale. Come per Ghassan l’opera di Fadhil mette in moto una trasformazione. Sono vicini per poetica i due, oltre che per nascita. Ghassan con il suo lavoro ricorda che il compito dell'artista è quello di farsi mediatore e ricettacolo di pratiche positive collettive, di uscire dalla pratica individuale per trasformare l’opera in un atto epistemologico informato alla passione culturale collettiva, con l'obiettivo di affrontare le attuali crisi della natura e in parallelo le crisi dell’uomo contemporaneo. Come Fadhil. Le loro opere non sono semplicemente delle superfici o dei travestimenti, delle superfetazioni, estetismi, ma atti etici, sono atti di indignazione, disapprovazione, riflessione, con la funzione di aprire lo sguardo sui problemi dialettici dell’uomo. Quindi in questa prova che raccoglie atti collettivi, Fadhil propone una messa in scena, quasi teatrale nell’impatto scenico, ma profondamente quotidiana e vera nella sostanza.

La processualità dell’opera la presenta aperta ai cambiamenti, il suo divenire è basato sulla condivisione e sulla relazione come principio imprescindibile di libertà d’espressione. Al Fadhil da molto tempo si occupa con la sua arte di toccare temi di carattere e tematiche sociali (ricordo ad esempio l’opera Manto Mutante, una grande tela istoriata, che è un lavoro in progress, dialogante e relazionale, alla cui realizzazione concorrono gli spettatori della mostra in cui viene presentata, partecipando al ricamo collettivo di una serie di parole disegnate variamente sulla tela e ripetute in più lingue) e la condivisione, che è partecipazione in libertà. La lavagna quindi non è solo uno spazio libero, ma uno spazio di partecipazione (lo diceva il nostro Gaber, nel testo La libertà... Voglio essere libero, libero come un uomo... La libertà non è star sopra un albero Non è neanche il volo di un moscone La libertà non è uno spazio libero ...Libertà è partecipazione). Fadhil accordandosi con gli aspetti legati alla presenza dell’altro nel momento creativo, fa dell’opera una superficie che accoglie partecipazione nella libertà dell’azione e del pensiero. Qui non delega soltanto il suo fare, ma invita a contribuire alla costruzione di un’opera collettiva che si evolve e cambia nel tempo con l’intervento di partecipanti consapevoli e attivi. È un invito. Quindi si diventa autori in libertà, una libertà condivisa, con pensieri diversi magari e distanti, prospettive inedite e opinioni divergenti, gesti aleatori o ideologici, che co- munque iscrivono storie in comune, partecipate, storie del mondo, quello di tutti. Non c’è libertà nel stare sopra un albero ricorda... I lavori di Al Fadhil sono occasioni per scendere dall’albero, per riflettere sulle distanze che ci separano e sulle occasioni che ci uniscono, sulle dinamiche dei rapporti interpersonali e sociali ma anche inviti a rivedere e riscrivere positivamente il nostro rapporto con la terra, con gli aspetti sociali, politici e naturalistici.

L’artista, sempre alla ricerca di “verità”, sa che non ne esiste una sola. Nel suo peregrinare ritorna sui suoi archivi e sulle sue tracce lasciate nel passato e recupera per la mostra anche una sua opera realizzata nel 1996 intitolata “Tahafut al Tahafut”, titolo che rimanda al noto libro del filosofo arabo Averroè (Ibn Rushd 1126 – 1198 ) “L’incoerenza dell’incoerenza dei filosofi”, scritto come risposta alle tesi di un’altro filosofo, Abu Hamid al-Ghazali che scrisse “Tahfut al Falasifa”, la distruzioni dei filosofi. Averroè difende la filosofia aristotelica dalle critiche mosse da al-Ghazali evidenziandone infondatezza e la distorsione della sua interpretazione. Tutto è destinato alla distruzione si chiede Fadhil? Da artista si insinua in questa impossibile diatriba lontana nel tempo e nello spazio, ma presente nel suo cuore e pensiero, con un’opera nera, buia, materica, tattile, composta interamente di numerosi pezzi di carbone, racchiusi in una cornice nera, una sorta di scatola, un raccoglitore, ma anche uno spazio racchiuso indicatore di una fine, di quel momento in cui tutto ritornerà ad essere polvere e alla terra, appunto Tahafut al Tahafut.

L’opera è un peso e pesa nella storia. Mi piace pensare anche al carbone storico e drammatico di Jannis Kounellis (il primo del 1967 era all’Attico di Roma) al suo essere energia in potenza, segno originario, forza naturale, tensione materiale in trasformazione. Scatenare energie fisiche e intellettuali, proporre cambiamenti, misurare atti, sensibilità, rendere l’arte viva è un riferimento operativo di Al Fadhil. Gli oggetti della realtà e le parole di tutti si incontrano nello spazio dedicato all’arte che si apre alla vita, con l’arte che rinnova l’invito a riscrivere un altro mondo possibile dopo la distruzione. O poco prima. La mostra avrà un seguito, una coda operativa in un’azione performativa, una cerimonia potlatch, che l’artista terrà nel mese di Marzo in un grande prato. Il lavoro “Tahafut al Tahafut” sarà dato alle fiamme in un intento rigenerativo delle forze naturali, distruttivo per l’economia dell’arte ma nello stesso tempo rituale e celebrativo di istanze antropologiche.

 Luca Scarabelli

 

 

Al Fadhil (Iraq, 1954). Ha studiato all’istituto d’arte di Baghdad e all’Accademia di Belle Arti di Firenze. Fin dagli esordi il suo lavoro esplora il valore semantico della pittura- Dagli anni ’90 amplia il suo raggio di operatività con la fotografia, la performance e vari media. L’opera è quindi dedicata alla ricerca di un dialogo tra le forme tradizionali dell’arte e le relazioni tra le persone, con contenuti come l’uguaglianza, la politica sociale, le migrazioni, i diritti umani. Si interessa particolarmente al ruolo sociale dell’arte e alle sue istanze multiculturali.

  


Beatrice Meoni

Un attimo dopo

 

30 Ottobre - 5 Dicembre 2021

  

Il lavoro di Beatrice Meoni è per la maggior parte delle volte un insieme di cose sbagliate composte nel modo giusto. Ogni pennellata o campitura o trasparenza o traccia sottostante ci dice quanto la sua pittura sia il risultato di una continua correzione, un tentativo di rapportarsi poeticamente ad un’immagine mentale utilizzando una materia viscosa difficile da determinare. Lontana da ogni tipo di suggestione fotografica la pittura di Beatrice si rapporta direttamente con il suo mondo interiore. Non vi è preoccupazione sul difficile rapporto tra pittura e fotografia perché le immagini si determinano nel loro farsi, nel loro continuo riproporsi, anche nella negazione di quello che era già stato eseguito, come se le cancellature e le abbondanti sovrapposizioni di colore diventassero una sorta di aggiustamento necessario. L’immagine pittorica nasce quindi per tentativi, se esiste un qualche rapporto con la fotografia questo non si esplica nella sua semplice riproduzione, per quanto originale o personale essa sia, e neanche in un suo potenziale sviluppo in negativo, ma in una sorta di immobilità frastagliata simile a quella di una deflagrazione congelata dallo scatto fotografico. I soggetti sono spesso rotti, composizioni di frammenti in caduta libera; vengono rappresentati in quell’istante prima che un imminente disfacimento li renda del tutto irriconoscibili. Le figure non esprimono dinamismo, al contrario si ricompongono in un equilibrio statico e piuttosto precario e la funzione dell’artista in questo caso è quella di assemblare immagini possibili, più suggerite che esplicitate in modo chiaro. Nel caso dei vasi rotti, una serie di dipinti del 2017, la rottura che precede la messa in posa dei soggetti ha permesso a Beatrice di creare una serie di contraddizioni e di tensioni sulla superficie della tela, …per esempio: la linea che da elemento descrittivo si trasforma in segno astratto, le campiture di colore che si discostano dal dato di realtà per divenire superficie autonome e infine la messa in discussione del soggetto in quanto elemento narrativo. Questo bisogno di frammentare già in fase ideativa ha forse a che fare con l’impossibilità di cogliere l’insieme delle cose tipico di una realtà contemporanea dove l’eccesso di informazione fatica a restituire un quadro globale. E se questo discorso vale per un vaso di terracotta allora si presenterà con maggiore gravità quando il soggetto è una persona: come riuscire a descrivere un volto? E’ ancora possibile ritrarre un uomo o una donna? Fermare uno sguardo? Queste le domande che emanano dai lavori esposti in questa mostra. Si tratta di teste decollate che vengono disposte su un piano inclinato, in un disequilibrio evidente, un accennato scivolamento che non è solo riferito al linguaggio che compone l’immagine ma forse anche al suo senso più profondo, alla sua ontologia; una sorta di messa in discussione dei fini dell’operazione stessa.  Nel tentativo di reagire all’imminente rottura del senso o per un bisogno di completezza, i temi della pittura di Beatrice si collocano in filoni precisi della tradizione pittorica: la natura morta, il tromp-l’oeil, le innumerevoli teste decollate tratte dalle storie sacre, ma anche in un certo modo le icone della tradizione bizantina: volti che smettono di essere tali e si trasformano in maschere o che si trasfigurano in apparenze archetipiche che ancora per poco mantengono i tratti riconoscibili di una fisionomia per poi trasformarsi gradualmente in materia poetica.

Cesare Biratoni

 

Beatrice Meoni (Firenze, 1960). Vive e lavora a Sarzana. Dopo la laurea in Letterature straniere inizia il suo percorso nel campo della scenografia affiancando il lavoro di pittrice di scena a quello di progettista per il teatro. Dal 2005 si dedica principalmente alla pittura. Nel 2012 inizia la sua collaborazione con la galleria Cardelli & Fontana di Sarzana. Ha esposto presso Galleria Traghetto, Venezia; MAC, Lissone; Museo Guido e Anna Rocca, Chiavari; Museo d’Arte Contemporanea Villa Croce, Genova; Galleria Passaggi, Pisa; Casa Sponge, Pergola; Otto Gallery, Bologna.

 


 

fiori/flowers/blumen/fleurs/flores

 

17 Luglio - 18 Settembre 2021

Cesare Biratoni, Valeria Borrelli, Claudia Canavesi, Lorenzo Di Lucido, Gabriele Jardini, Giulia Dal Monte, Vera Portatadino, Warshadfilm e un contributo sonoro di Stefano Arienti

 

 “Non vedo l’ora di condividere con tutti le mie più belle fioriture!" 

Un annuncio di un appassionato di botanica e floricoltura che facciamo nostro per presentare in surplace opere dedicate ai fiori, più o meno fioriti… 

Soggetti tra i più rappresentati nella storia della pittura in paesaggi pittoreschi o nature morte, raccontano di bellezza, annunciano i cambi di stagione, suggeriscono sentimenti amorevoli per la natura ma anche il dissiparsi e la decadenza, silenziosi testimoni del memento mori delle nostre certezze. Dagli antichi egizi con i primi loto blu, passando dai romani dell’età imperiale ai francesi del’800, dalle miniature medioevali alle illustrazioni dei libri di botanica, dai festosi tripudi olandesi fino all’arte delle stampe giapponesi, sono molti gli artisti anche del’900, anche i più inaspettati, che si sono confrontati con questo tema. Oggi che succede? C’è uno sguardo attento a questo tema intramontabile? Semplici dettagli, importante protagonista solitario della tela o di una fotografia, conversazione intima e personale con la natura, fredda decorazione da vendere, o ancora segno quasi astratto, indicatore di trasgressione e transitorietà, simbolo politico… Il fiore è un vocabolario, un segno ricco di simbologia a cui appoggiare lo sguardo e i sensi.

Il fiore di Cesare Biratoni, un collage in dialogo serrato con la pittura, è colto con lo sguardo sbirciando dal buco della serratura dei ricordi dell’album di famiglia. Valeria Borrelli compie un’azione in cui accompagna un grande cartello/segnale/fiore nello spazio della galleria, un fiore erratico e in relazione. Claudia Canavesi con il disegno di un cardo realizzato con inchiostro nero, ci racconta di un fiore che scoraggia il contatto, ma che attira con il suo profumo insetti e farfalle, e che una volta seccato diventa paradossalmente eterno. “Credo che sia naturale dipingere un fiore per un pittore prima o poi.  Allo stesso tempo c'è qualcosa di eroico nel dipingerli”.  Lorenzo Di Lucido scrive sull’idea di questa mostra per accompagnare il suo dipinto, un dittico realizzato ad olio su tela (2020-2021) il cui titolo è "La parola".  I fiori parlano. Ricordano il periodo formativo e i biglietti agli amici. Gabriele Jardini è presente con “Cieli rossi” una fotografia del 2013: in una articolata composizione visiva, troviamo terra, papaveri, margherite e farfalle. Ma la delicatezza della natura è colpita dalla violenza di un martello. Un’immagine cruda, diretta e pesante, che fa pensare alla estrema fragilità della natura, dei sui equilibri e gli interventi dell’uomo. Con un global warming all’orizzonte. Giulia Dal Monte con “Armonia mundi” del 2021, tocca momenti molto poetici. Nel breve video, natura e cultura sono l’espressione dell’armonia; due fiori si intrecciano e si abbracciano. Vera Portatadino attenta ai dettagli che diventano protagonisti, al marginale e alla circolarità del tempo, espone un dipinto su tavola “Let the Century pass me by” del 2018, in cui vari elementi botanici sono sospesi e appesi in uno spazio indefinito, forse quello del pensiero, della coscienza o ancora della memoria. Restituisce una particolare atmosfera che suggerisce anche un dialogo e un confronto con la storia dell’arte.  Warshafilm (Tiziano Doria e Samira Guadagnuolo) presentano un lavoro in cui si ricerca un isomorfismo tra il visivo, il suono, il racconto.  C’è una forte reciprocità tra parola e immagine nel lavoro del 2020 “Chi è amato contrae un debito permanente”.  Stefano Arienti allude ai fiori attraverso la musica con un contributo sonoro composto da brani provenenti da diverse tradizioni scelti dalla sua collezione di cd  da tutto il mondo che raccoglie da anni in una inesauribile ricerca. Come i fiori anche la musica   – che in  molti paesi non conosce sistemi di trascrizione  e viene continuamente reinterpretata – è destinata all’obsolescenza, alla trasformazione e alla scomparsa. Ditelo con i fiori!

 


Alessio Larocchi

Le Grazie fiorite

 

 a cura di Claudia Canavesi

3 Maggio - 19 Giugno 2021

 

So am I as the rich, whose blessed key, 

Can bring him to his sweet up-locked treasure, 

The which he will not every hour survey, 

For blunting the fine point of seldom pleasure.

 (William Shakespeare - Sonnet LII)

 

Larocchi sfida lo smarrimento di tutti i percorsi, l’azzardo di non guadagnare mai un centro, (si) muove senza conoscere se agire e errare collidano o si integrino o si elidano; muove comunque verso un fine e la fine. Muove intersecando segni, suggerendo ed elidendo cromìe, trasmettendo eventi d’ombre, per cancellarne alfine ogni traccia o al più sospenderne la leggibilità trasferendo i pattern impiegati su piani virtuali, per una completa dissoluzione delle attese. Una vicenda labirintica evolve per spazi fisici dai confini labili, per strumenti e oggetti - dai libri d’artista alle lastre metalliche alle pellicole - atti a riscontri metamorfici o piegati a inediti utilizzi, per itinerari fluttuanti secondo schemi continuamente in fieri, indirizzati a superare ogni soglia per affacciarsi sull’inafferrabile. Che si tratti propriamente di un progetto di sottrazione è l’autore stesso a confermarlo nel momento in cui suggerisce come i suoi scritti non abbiano destinatario se non già scomparso: perciò assumono corpo fantasmatico o sembianze svianti. Il limitare tra l’esperienza che si sta vivendo e l’esperienza che continuamente si perde costituisce il punto focale del pensiero e del lavoro di Larocchi. Vissuto e perduto vi coincidono per un battito d’ali e nulla più, per divaricare immediatamente e allontanarsi inesorabilmente. Le stesse tracce dell’oggi smemorano, fatte cenere da una fiamma breve il cui bagliore s’è impresso nella rétina per un infinitesimo istante. Quella che chiamavamo stratificazione della memoria, anch’essa implode sottraendoci accumuli di pensato e d’esperìto: mai come nella stagione odierna possiamo verificare l’accorciamento e la rarefazione della memoria, dei singoli e collettiva. L’esperienza diventa un tesoro protetto e continuamente differito per timore della sua sparizione. Larocchi non cerca e non vuole risposte dalla sua opera. Gli basta la bellezza, non di averla sine dubio imperfettamente realizzata ma di averla pensata e di essersi semplicemente messo in gioco. Attengono a tale atteggiamento la volontà e la capacità di elidere i vari passaggi sorvegliati che appartengono al consueto lavoro d’artista. Non aspira quindi a una verità - peraltro sperimentiamo più verità quando ci troviamo nella nebbia o in una stanza buia - ma a quel vertiginoso differente rispetto a ciò che all’inizio si poteva credere di investigare. E accetta di trovare esiti ben altrove, certo aldilà del falso orizzonte che ci circonda. Opera nell’enclave di un’écriture sans programme, accetta la lezione degli enigmi, opta per una guida sempre inesatta, suggerisce aperture senza costituirle in messaggi, privandole volutamente d’intenzione; contempla pazientemente gesti automatici affinché il materiale diventi neutrale, astrae dalle forme alterandone l’efficacia identitaria, frattura costantemente i confini della ricerca, cancella e cancella ancora per serbare con il supplizio una purezza. Entra ed esce dall’opera non come autocitazione ma per testimoniare la verticalità dell’umano esperire, per quanto lo si percepisca in ogni istante e stagione come orizzontale, esteso più o meno secondo il grado di onnipotenza che ciascuno si attribuisce. 

(Mi immagino la sua casa come un ambiente poco o punto connotato, privo di elementi di disturbo sia nell’arredo, sia per indici d’epoca, sia sul fronte del colore, e soprattutto privo di figure, di qualsivoglia icona pittorica o plastica, forse anche di specchi, le poche cose svuotate da ogni tratto estetico, considerate in mera chiave utilitaristica, onde salvaguardare lucidità di pensiero; ove soltanto la fotografia sussiste come documento riproducibile, rimossa la memoria e gli affetti. Approccio di precisione ma non maniacale quanto monacale, scelta di una spoliazione totalmente priva di enfasi - e altresì di retorica minimalista. Basti considerare i cartamodelli per piccola casa, i lavori mutuati, direi digitalizzati, dai découpages e simulation paintings, i ricami per millimetriche abrasioni, come millennio per millennio sulla superficie dei massi milioni di anni di piogge hanno dilavato la superficie, restituendo un’originaria fisicità che ci sorprende per la provenienza lontana). 

Alberto Crespi

 

 

Alessio Larocchi vive e lavora a Monza.  Tra le sue mostre: Arte Segno Scrittura, Archivio di Stato, Pisa; Paesaggio poco romantico, Studio Gennai, Pisa; Permanent vacation, Galleria 10.2!, Milano; Simulation painting, Fondazione Mudima, Milano; Not emotional, Galleria City Art, Milano; PNEUMAtic circUS, Haus der Kulturen der Welt, Berlino; NOPX|artistbook, Galleria Nopx, Torino; Liquid Borders, Castello Svevo, Bari; Il corpo solitario, Fusion Gallery, Torino; BorderBody - Mixing Identities, Palazzo Barone Ferrara, Bari; Punti critici di controllo, Torrione Angioino - Civica Galleria Arte Contemporanea, Bitonto (BA); Figura Aqua, Museo Carà, Muggia (TS); Punti di fuga, The Others, Ex Carcere Le Nuove, Torino; In Levare/En Lever, CACC, Cittadella (PD); Swallowed Paradise, Chiesa di San Rocco, Carnago (VA).

 


Francesco De Prezzo

Stand Sculpture

 

28 Settembre - 8 Novembre 2020

 

Luca Scarabelli: Quando inizia a esistere una scultura? Potrebbe essere la domanda principe che ci apre un breve percorso per la lettura del tuo lavoro. Assieme alle costanti percettive, alle implicazioni che riguardano il problema antico della rappresentazione, alla misura dello spazio e al problema della costruzione dell’immagine.

Francesco De Prezzo: La mia pratica coincide in qualche modo con la messa in discussione anche di questi statuti per portare al limite le possibilità narrative di scultura e la pittura intese come macrocategorie.

Luca Scarabelli: Alle spalle c’è il tuo interesse per il modernismo, le letture dei testi della Krauss, i discorsi attorno ai suoi schemi, ma anche l’attenzione alle analisi linguistiche di Art And Language. La scultura che proponi con semilavorati, la presenza di schemi, l’ordine spaziale, denotano una predisposizione ad occupare lo spazio dotandolo di senso e misura, ma anche l’interrogazione sullo stare nello spazio, che mette in evidenza pregi e difetti del formalismo stesso.

Francesco De Prezzo: Gli “Stand” sono delle sculture molto semplici in metallo, originariamente cavalletti da supporto fotografico, rimontati secondo un preciso ordine. 

Nel libretto delle istruzioni è bastato sbarrare alcuni passaggi, quindi portare un nuovo ordine di montaggio ad alcune parti per ottenere qualcosa di diverso, più simile a una scultura.

Luca Scarabelli: Quindi l’approccio è quello di smontare le regole rimanendo all’interno di una misurata dialettica del motivo. Riformare una unità linguistica che possiede un senso indipendente e riscriverla secondo altre regole che spostano, ad esempio, quella della sua funzione o del programma d’uso in altro. Penso all’ars combinatoria e alla generazione di nuove categorie di segno.

Francesco De Prezzo: Come si vede gli “Stand” hanno una forma che allude  vagamente  ai  3 assi spaziali (Z,X,Y), quindi possiamo intenderle  anche  come  elementi che segnano semplicemente posizioni  nello spazio. 

Luca Scarabelli: Rinnovare la logica sequenziale e la struttura delle coordinate per trovare un’altra possibilità. Lo spostamento è neutro o questa consequenzialità tra l’oggetto originale e la forma che proponi mette in luce uno scarto? 

Francesco De Prezzo: Uno dei requisiti base della scultura risiede nel suo collocamento all'interno di un’ indefinito “tutto”.  Dove sorge la forma? Da che sappiamo tutto occupa spazio, il nostro punto di vista isola l’oggetto dal contesto in cui si trova e ne cambia il suo peso, c’è anche un idea di distanza… 

Luca Scarabelli: Nei tuoi quadri la rappresentazione è messa sotto esame e lascia il posto alla procedura della sua scomparsa, un inganno al referente e allo sguardo stesso si direbbe. Anche le dinamiche di cosa c’è prima e dopo vengono annullate…

Francesco De Prezzo: Per fare un esempio il rapporto fra figura e sfondo a cui la Krauss allude, non è altro che una questione (in costante collegamento) di spazio, di distanze, di rapporti assoluti e posizioni rispetto a chi osserva. Allargando un po’ il discorso si potrebbe quasi affermare che la percezione ottica all’interno della nostra vita risiede in una questione di punti di vista, di spazi potenziali e rapporti continui.

Luca Scarabelli: Nel testo “L’inconscio ottico” si rivendica la dimensione dell’opacità, della ripetizione, della temporalità. L’opacità ti interessa molto da vicino.

Francesco De Prezzo: Mi interrogo sulla dimensione autonoma della pittura, sulla figura e sulla cancellazione e sulle reminiscenze della figura preesistente, creando dei campi in cui figura-sfondo-non figura e non sfondo convivono in un unica dimensione fisica (la pittura è materia fisica) e visibile ad occhio nudo.

Luca Scarabelli: Accompagni la presenza delle sculture con l’indicazioni di direzioni, possibili percorsi dello sguardo e fisici. Per veicolare l’attenzione e inserire il movimento? Mi sembra che sia una determinazione di carattere quasi antropologico, anche un modo  per attraversare l’opera orientando il corpo e lo sguardo.

Francesco De Prezzo: Delimitando diversi punti all’ interno dello spazio ottieni anche un  potenziale percorso, insomma definisci le regole della percezione. 

Luca Scarabelli: La tua scultura, dello spazio aperto direi, la vedo come un microcosmo plastico che ruota attorno alla quiete. 

Francesco De Prezzo: già… la scultura, alcuni artisti lavorano con le forme… altri lavorano con lo spazio che queste forme avrebbero dovuto occupare.

In ogni caso la mia attenzione cade troppo spesso sul territorio delle possibilità, in quel margine presente ancora prima che la scultura esista, ancora prima che essa possa posizionarsi.

 

 

 

Francesco De Prezzo (1994, Lecce) vive e lavora tra Milano e Brescia.

Il suo lavoro abbraccia diversi media, dalla pittura all’installazione, la sua pratica in queste forme mette alla prova la possibilità di una percezione visiva definita, discutendo il ruolo dell'immagine come linguaggio. Fra le mostre principali: “Francesco De Prezzo”, Raum 116, Kunstakademie Düsseldorf, Düsseldorf, 2015. “Null Paintings”, Loom Gallery, Milano, 2016. Homeworks, SpazioTripla, Bologna, 2019. “Project space” Galleria Massimo Minini, Brescia, 2016. “Represent”, Palazzo Monti, Brescia, 2018. “Portraits of a room”, Falsefront, Portland, 2019. “Project space”, JNBY group, Hangzhou, 2019.“Silence is so accurate”, Geukens & De Vil, Anversa. “at the limit of visibility”, Loom gallery,  Milano, 2021.


D.O.P.O.

Riss(e)/Surplace

 

15 Luglio - 31 Agosto 2020

 

Ermanno Cristini, Cesare Biratoni, Joykix, Rossella Moratto, Umberto Cavenago, Claudia Canavesi, Luca Scarabelli, Clara Scola,  Al Fadhil, Giancarlo Norese, Giovanni Sambo, Giuseppe Buffoli, Yari Miele, Francesco Fossati, Fabrizio Milani, Massimo De Caria.

 

Prolegomeni per un sisma entropico è il senso di questa mostra che sta invece della vacanza o in forma di vacanza. 

In vacanza dalla regolare programmazione essendo caduta la regola di regolarità, gli artisti che gestiscono gli spazi di R + S / AK si cimentano in una mostra in progress, dove opere, semilavorati, gesti, intuizioni, si incrociano a sperimentare la cancellazione dei segnali spazio-temporali che definiscono una mostra in quanto mostra. Non vi sarà inaugurazione ma un inizio probabile con una fine possibile per una mostra che si sa quando inizia ma non esattamente quando finisce perché ci piacerebbe vederla proseguire per un tempo indeterminato in ognuno di noi. Nel mezzo e nel mentre si snoderà un percorso non prevedibile animato anche dall’interferenza e dalla partecipazione attiva e nomade di altri artisti invitati a transitare ad uno ad uno, di quando in quando. Non sappiamo bene se visitare D.O.P.O. somiglierà più ad uno studio-visit che alla visita di una mostra, o viceversa, ma sappiamo per certo che sarà da “camminare” fisicamente e non virtualmente. Le opere si potevano vedere o intravedere, incontrare, ammirare e rivedere solo in D.O.P.O.

 


Luca Macauda

Shrill

dal 15 Dicembre al 16 Febbraio 2020

 

Paesaggio non è un dato materiale. 

È un’immagine che si fa se si sa, si vede se si vuole vedere. 

Ispira poesia e se ne nutre.

Giovanni Lindo Ferretti, Reduce

 

Luca Macauda racconta il paesaggio. Lo fa con il segno e il colore. Annota impressioni sedimentate nella memoria, evocate a distanza per rendere presente il suo personale giardino delle delizie – la Valle dell’Anàpo in Sicilia –, luogo d’elezione e, essendo siciliano d’origine, patria reale e ideale a cui tornare incessantemente con la mente e con il cuore. Di quel territorio, percorso ripetutamente a piedi in lunghe camminate nel calore dell’estate, l’artista non rappresenta scorci e vedute ma sensazioni, tradotte in colori e segni ossessivamente stratificati che dilatano lo spazio e il tempo nella dimensione inafferrabile della memoria che emerge alla luce dell’immaginazione. Passato e presente si mescolano in una pratica che è concreta e, parallelamente, introspettiva: il segno scava nell’intimità del sentire alla ricerca dell’emozione nel tentativo continuamente reiterato di far rivivere l’esperienza del luogo. Non c’è descrizione, ma sensazione viva, come guardare con gli occhi semichiusi, quando dalle palpebre filtra la luce del mezzogiorno, gli azzurri dell’acqua, il verde delle foglie, i viola delle ombre, i rossi della terra e delle rocce infuocate dal sole. Sinestesia pura: Macauda registra il calore afoso, il ritmo serrato del respiro, il frinire delle cicale che satura l’ambiente al punto da diventare presenza solida e fondersi con la vegetazione. 

Un paesaggio archetipico eletto a utopica immagine identitaria che rivive incessantemente negli occhi. Ogni tela annota una sensazione legata a un preciso istante e a uno stato d’animo: gamme calde e andamenti curvi si alternano a gamme fredde e segni allungati, tensioni verticali interferite da pulviscoli fanno eco a grovigli circolari, ritmi alternati, sovrapposizioni che fanno emergere luci e colori dal buio. Scavo interiore e corpo a corpo con tela e pastello, ogni segno un gesto che testimonia la lunga durata dell’esecuzione. Variazioni su un unico soggetto sempre riproposto, sperimentando le molteplici possibilità di interferenza segno-colore, sfondo-superficie: ogni tela è parte di un’unica grande opera, ideale tessera di un mosaico che si compone e ricompone ogni volta in modo nuovo. Per questa mostra sono stati scelti cinque lavori con tonalità e organizzazioni segniche differenti, allestiti per contrasto in una sequenza inedita che forma un fregio espressamente ideato per una parete dello spazio espositivo.

Un continuo ritornare e ritrovarsi nel gesto elementare del tracciare una linea a mano libera che accomuna l’artista al bambino e ai progenitori della civiltà rupestre di Pantalica che abitavano quella valle e, allo stesso modo, ornavano con rosse decorazioni le tombe dei defunti che ancora costellano le rocce delle gole dell’Anàpo. Un’appartenenza che Macauda rivendica nella sensibilità e nella memoria, mai spenta né affievolita: il senso del luogo, intimo ma  collettivo, nel quale riconoscersi come parte della storia ed esserne parte vivente.

 

Rossella Moratto

 

 

 


Cesare Biratoni

 A prova di conflitto d'interessi

 

dal 27 Ottobre al 1 Dicembre 2019

 

Entrare nello studio di un artista è avere un approccio intimo con il processo di produzione dell’opera. Pensare di avvicinarsi al lavoro di Cesare Biratoni andando a perlustrare come antropologhi le sue tracce depositate nello studio è la condizione di partenza di questa operazione voyeristica ideata e proposta dagli scienziati culturali Luca Scarabelli, Rossella Moratto, Joykix, Umberto Cavenago con l’aggiunta di un forense esterno  dalle qualità decisamente adatte allo scopo come Giancarlo Norese. Quindi il gruppo di lavoro entra nello studio di Cesare Biratoni, cavia destinata a diventare trasparente, per presentare il dispositivo “laboratorio” e per verificare se attraverso i depositi, le impronte, i segni lasciati dal nostro amico pittore, sia possibile individuare le sue poetiche e obiettivi. Osservare la stratificazione delle cose significa capire anche dove si vuole far cadere lo sguardo, pensando agli studi nell’immaginario di tutti, come quello di Francis Bacon, ma anche del polveroso studio di Giacometti…

 È come vedere il suo mondo formarsi, sentire le spinte alla costruzione delle immagini un attimo prima della loro formazione, mappare le intenzioni, ma anche entrare all’interno di un “rumore” visivo che poi, si sa, il pittore trasformerà in altro. Uno studio prova, archivio, deposito, in cui toccare materiali, carte, colori, matite e farsi sfiorare  dall’idea di una possibilità di ricerca sempre aperta, perché Cesare, lo sappiamo, cerca sempre un modo di fare che sia di valore, coltiva quasi l’opera, la cura con diligenza. È l’occasione per adottare un’altra prospettiva, ribaltata, che ci connette al momento della genesi del lavoro presentandolo insieme alla complessa rete di rimandi culturali e iconografici che lo presagiscono nel suo farsi.  Siamo qui a sorvegliarlo, a seguirlo, a indagarne i processi di produzione e ideazione; sbirciamo le sue cose prima che nascano e lui non lo sa. 

Il conflitto di interessi richiama all’idea del rischio e dell’incertezza, ma anche alla rete delle relazioni, sia interna al lavoro, sia al gruppo di Surplace, che si mette a osservare l’operato di un suo componente, che risponde lasciando agli altri componenti una fiducia incondizionata di indagine. Si decide di rendere manifesta la natura della relazione, con imparzialità e una distanza di lettura, o almeno si prova a entrare in punta di piedi nel suo studio, nella sua scena, nel suo teatro, anche nella sua collezione di immagini, camminando su un pavimento fluttuante che a volte è una mappa geografica a volte una furia di immagini discarica dell’immaginario contemporaneo, seguendo le tracce sui muri, ampi spazi patologici di storie in divenire, con cose che emergono e altre che si perdono. Il risultato di questo esperimento, quasi alla Bentham, sarà presente nella mostra a lui dedicata nello spazio di Surplace, dove sarà ricostruito, a cura dei suoi amici, il suo spazio di lavoro che diventerà un nostro spazio.

 

Luca Scarabelli, Rossella Moratto, Joykix, Umberto Cavenago, Giancarlo Norese


Sergio Breviario

 

OTTOMILA E NOVECENTODICIANNOVE

8 Settembre 2019

proiezione del video di Sergio Breviario titolato: Nimbo o aureola quadrata e il disegno di Watteau, 2019, durata: 17’56’’.

“LUI è alto circa un metro e ottanta, ha 45 anni e porta la barba. LUI, come tutti noi, cerca qualcuno in grado di guarirlo da ogni male. Incontrerà sul suo cammino presunti profeti e aspiranti santi della commedia dell’arte, anch’essi in cerca della perpetua felicità.”

Un anno stravagante questo e forse tale stravaganza a volte tende a strabordare. Di questo si tratta, d’immagini lente, simpatiche, colme di un'infinita e mai volontaria tristezza. Un video composto dal susseguirsi d’inquadrature fisse, dove alcuni personaggi compiono semplici e a volte insolite azioni. Più simile a delle pose fotografiche, le immagini raccontano la storia di un uomo zoppo, intento a percorrere un cammino visionario e colmo di stropicciate citazioni, che sembra concludersi con una quanto mai insolita e santa guarigione: un'ascesa fisica, una levitazione.

 

VENTIDUEMILA E NOVECENTODICIANNOVE

22 Settembre - 21 Ottobre 2019

Felicità è non accettare la propria limitatezza. L’arte  suggerisce una via, o meglio una scorciatoia per superare i propri limiti e tendere verso la felicità. Per essere felici è sufficiente avere un mento su cui ancorare un Nimbo o aureola quadrata.

Anche una scultura può essere indossata, esattamente come un nimbo. Andare oltre se stessi, abbandonare la visione razionale e antropocentrica per diventare piedistallo, azzerando la distanza tra sé e l’opera e guardare ciò che ci circonda da un altro punto di vista, fuori di noi.

 

 

Sergio Breviario. Nel 1998, con il Progetto Erasmus, studia presso la Kingston University di Londra. Nel 2002 partecipa al Corso superiore di arti visive presso la Fondazione Ratti di Como, Visiting Professor Giulio Paolini. La sua ricerca si basa sul verificare sistemi espositivi che risultino essi stessi processi artistici. Oscillando fra l’utopia modernista e la coscienza post-moderna, mette in scena meccanismi espositivi privi di certezze assolute, sperimentando un approccio partecipativo.


Sergia Avveduti

 

dal 30 Giugno al 3 Agosto 2019

 

Il collage è un esercizio di leggerezza; non conta quanto siano gravi o significative le immagini, quel che rimane tra le mani quando si ritaglia è la carta. Se poi si aggiunge il fatto che l’immagine non è autoprodotta, non è il frutto di una raccolta digitale, di un’esplorazione da internauta sul web, ma il risultato di una lunga e meditata cernita di vecchie riviste, allora alla leggerezza si somma una disposizione allo scavo, allo stupore per la banalità delle cose.  I paesaggi di Sergia Avveduti sono chiari, e in quanto chiari sono anche precisi, allusivi, costruiti secondo una geometria apparentemente semplice: “devi essere leggero come un uccello, non come una piuma”, diceva Paul Valery, lasciando intendere che la leggerezza è tale quando si sposa con la precisione, quando è determinata da una volontà sapiente e non si perde in vaghezze o casualità. I frammenti di paesaggio si compongono seguendo delle suggestioni narrative e figurative e la forma circolare del ritaglio, il cerchio come equidistanza dal centro e messa a fuoco di un particolare, crea delle combinazioni suggestive sulla linea di un orizzonte completamente reinventato. Lo sguardo scorre sulla superficie delle immagini come gli insetti che camminando sull’acqua ne curvano in modo impercettibile la patina trasparente. La loro “superficialità” è il frutto di un gioco abile di equilibrio, il tentativo riuscito di scivolare sulle profondità di un abisso che si intravvede appena ma che non smette di riverberare la sua presenza. La sua sopravvivenza è il frutto di una determinazione costante, come quella dell’artista che si mantiene in equilibrio precario sul tempo, che rielabora in forma visibile lo scorrere continuo delle immagini della nostra epoca e di quelle passate, e che produce, nonostante tutto e tutti, una restituzione di senso. Sergia Avveduti presenta in mostra opere relative ad un progetto inedito che sintetizza la sua ricerca sul collage. I paesaggi sono composti usando fotografie tratte da riviste di viaggio degli anni ’50. Come dichiara l’artista:  “la geometria delle singole porzioni va oltre la capacità descrittiva che ogni singolo frammento ha al suo interno, realizzando un dislocamento percettivo che sospinge lo sguardo a compenetrare e a immaginare cielo e terra, natura e architettura, visione e introspezione. Ogni singolo collage si pone in relazione a una maquette architettonica realizzata in gesso ceramico: come fosse una traslazione fisica tridimensionale di un portato costruttivo”. Il frammento leggero di carta e la citazione fotografica si relazionano con il frammento architettonico, suggerendo una disposizione quasi archeologica. La qualità “antica” dell’immagine e il suo prolungamento tridimensionale suggeriscono inoltre una visione nostalgica e archetipica del paesaggio …gli appunti di un moderno tour.

 

Cesare Biratoni

 

 

Sergia Avveduti, nata a Lugo (Ra) nel 1965, vive e lavora a Bologna. Tra le sue mostre: Fondazione del Monte, Bologna, La Galleria, Palazzo ducale, Mantova. Padiglione L' Esprit Nouveau, Bologna. Fondazione Sandretto Rerebaudengo, Torino. Triennale, Milano. Fondazione Del Monte, Bologna. Palazzo delle Papesse, Siena. Mambo-Galleria d’Arte Moderna, Bologna; Fondazione Teseco, Pisa. Palazzo delle Albere, Trento. Palazzo dell’Arengario, Milano. Open Space, Milano. Galleria d’Arte Contemporanea di Monfalcone. Pinacoteca, Bologna. Atelier des Artistes (Marsiglia). Le Botanique (Bruxelles), Palazzo delle Esposizioni, Roma. Palazzo Kapetan Misino Zdanje, Belgrad. Casabianca, Bologna. Cabinet, Milano. Erastudio HouseGallery. Antonio Colombo Arte Contemporanea, Milano. Agenzia 04, Bologna. Neon>FDV, Milano. Galleria Spazio A Pistoia. Galleria Neon, Bologna. Galleria AF arte contemporanea, Bologna.

 

 


David Casini

Il qui è già l’altrove

dal 19 Maggio al  21 Giugno 2019

 

Paesaggio rurale con albero, antenna mascherata da cipresso e ripetitori. Castiglion Ubertini, provincia di Arezzo: uno scampolo di campagna disordinatamente antropizzata, sempre visto e, allo stesso tempo, sottilmente straniante. 

Il paesaggio è sempre un’invenzione che scaturisce dall’incontro tra un luogo e uno sguardo che lo informa. Lo sguardo è quello di David Casini, che ripercorre il territorio della sua infanzia e della sua adolescenza. Castiglion Ubertini è l’opera che ha dato inizio a una serie dedicata alla Toscana: scatti fatti con il cellulare come appunti visivi legati al vissuto e all’abitudine che indugiano su scorci ordinari, comuni alla grande provincia italiana rurale e periurbana, ignorati dall’immaginario spettacolare e turistico da cartolina. Vedute straviste dal finestrino dell’auto lungo una provinciale o dalla finestra sul retro della casa, teatri della quotidianità in continuità con quel Viaggio in Italia di Ghirri, Guidi, Basilico, Castella e degli altri fotografi che hanno percorso l’anti-grand tour del paese Italia, trentacinque anni or sono. Casini riscatta la mediocrità degli orizzonti familiari alla luce della memoria in un micromuseo personale in forma di reliquiario domestico racchiuso in una piccola teca – appena 25x20,5x20,5cm –, in cui l’immagine, montata su una sottilissima struttura di ottone – cifra riconoscibile che rimanda a geometrie di eredità modernista – è allestita in uno spazio sospeso che evoca la casa di un collezionista bolognese di cui l’intarsio ligneo del pavimento è la metonimica citazione. E sono proprio i dettagli a essere gli indizi di una narrazione destinata a restare ignota ai più ma che riesce a rendere l’ordinario straordinario: la veduta di Castiglion Ubertini è montata sul calco della custodia di una musicassetta, oggetto domestico di culto per i ragazzi coetanei dell’artista. La musica che dalle cuffie del walkman ossessivamente riproduceva le compilation fatte in casa con le registrazioni dei pezzi suonati ai concerti negli stadi o nei palchi di periferia è quasi una madeleine proustiana  che spalanca un’altra dimensione e trasforma il qui in altrove. Solo un pezzo, solo dai, per continuare a sognare: basta collegare il jack alla cassa e il viaggio ricomincia, ognuno il suo, nei paesi come nelle nei sobborghi urbani abbandonati all’entropia postindustriale. Solo un pezzo, solo dai, risuona anche a Varese dove il piccolo amplificatore – il titolo è il verso di una canzone del disco di esordio di Faust'O – è racchiuso in uno scrigno di cemento che riproduce in piccole dimensioni il suo gemello elefantiaco che campeggia in un anonimo parcheggio di Scandicci. Il monolite, archetipo dell’immaginario contemporaneo –  da “2001 Odissea nello spazio”, alla leggendaria copertina di Who’s Next degli Who, al mega amplificatore di “Ritorno al futuro”, e ancora il design razionalista dell’amplificatore Brionvega, – sembra essere atterrato dallo spazio remoto per spalancare le porte dell’immaginazione e all’improvvisazione: una chitarra o un microfono e, inaspettatamente, il qui è già l’altrove. 

 

Rossella Moratto

 

 


Gianluca Sgherri

dal 7 Aprile al  11 Maggio 2019

 

Con l’opera pittorica di Gianluca Sgherri le componenti dialettiche del fare pittura e dell’otticità si mescolano nella continuità di una pratica elaborata lentamente, meditata e quasi assoluta; ma è nella massima semplicità che qualcosa accade. Nella mostra da Surplace presenta due serie di lavori della sua ricerca recente, che pur differenti per clima e approccio, sia per impostazione formale sia per il racconto degli effetti visivi interni alla superficie stessa, sono collegate idealmente dalla stessa attitudine alla formalizzazione del fenomeno fisico dell’assorbimento. È la messa in pratica dell’esperienza del colore coinvolgente, come sostanza e valore, in rapporto con la sua forza luminosa nella costruzione di una forma. La sua grammatica compositiva mette in relazione armonica figure, visioni cromatiche e spazio immateriale. Sono difatti molte le suggestioni che l’opera mette in campo, anche se è un’unica luce quella che vediamo. In una tipologia di lavori - dai titoli enigmatici ed evocativi, come Quando rinasco ho la più bella impressione oppure Eternal del 2018 - adotta la pratica dello sfumato, ricercando passaggi tonali e coloristici che rendono la superficie gassosa, quasi impalpabile, galassie di colore effervescente in cui l’occhio non trova appiglio, orizzonti a 360 gradi sull’infinito. Nell’altra serie - a cui appartengono ad esempio Diviso infinito o Vie di Marte del 2018 - grazie a un gioco minuzioso con trama e ordito, modula pregnanti superfici regolari, pattern flessibili, in cui, nei punti di tangenza degli intrecci fa scorgere punti luminosi e ancora linee eteree in superfici mai immobili. Si tratta di una pittura dove anche il tessuto materico della tela stessa, che dona un minimo movimento strutturale alla dimensione della visualità, ha una sua funzione nel caratterizzare il disegno finale.

Colore, luce, ombra, materia, atmosfera, minuzia, sono gli “a priori” della sua ricerca costante sull’immagine che costituisce la vera opera d’arte: la pittura per Sgherri è una narrazione silenziosa di un fare quasi rituale, che investe il corpo di una superficie concreta testimone di una temporalità sospesa, lenta, fatta di pazienza, dedizione e concentrazione, sensazioni che fanno parte della sua poetica e che emergono allo sguardo più attento. Il suo mondo è visto come sotto una lente di ingrandimento e la condizione per fruirlo è che lo sguardo sia in continua evoluzione, continuamente solleticato, in modo tale che nulla perduri e tutto scorra.

 

 Luca Scarabelli

 

Gianluca Sgherri, nato a Fucecchio nel 1962 si è diplomato in Pittura all'Accademia di belle arti di Firenze. Ha iniziato ad esporre nei primi anni novanta collaborando con la Galleria Margiacchi di Arezzo e con lo Studio d'Arte Cannaviello di Milano. Ha partecipato ad importanti mostre in Italia e all'estero tra cui: "Ultime generazioni" XII Quadriennale d'Arte di Roma; "Immagini Italiane"  Medienmeile am Hafen, Düsseldorf; "Arte Italiana 1968-2007, Pittura", Palazzo Reale, Milano. Vive e lavora a Santa Croce sull'Arno.

 

 


Ulrich Egger

dal 24 Febbraio al  24 Marzo 2019

 

Ordine e struttura, assieme alla dialettica tra interno ed esterno, sono gli schemi operativi ricorrenti dell’opera di Egger. Caratterizzato da un’operatività particolarmente attenta all’incrocio/incontro di situazioni eterogenee e ad accostamenti imprevedibili, Egger predispone opere in cui la relazione con lo spazio è di fondamentale importanza, anche all’interno dell’opera stessa, quando mette in dialogo elementi dalla forte caratterizzazione formale e fisica alle immagini fotografiche. I suoi sono paesaggi industriali e urbani, costruzioni varie, interni o facciate in stato di abbandono, ricordate e mediate dall’uso di diversi materiali, come l’acciaio, il ferro, il legno, il vetro, a volte uniti in ponderato dialogo con le immagini fotografiche. L’architettura del macrocosmo e il piccolo riferimento all’ordine naturale dei materiali delle piccole cose, degli oggetti di recupero o ancora di particolari materici estrapolati dalle immagini, tessono una regione “mimetica” in cui il ricordo e la storia delle cose utilizzate sopravvive come potenzialità simbolica e archetipica. La forza dell’accostamento dei sui “collage” materiali si trasforma subito in energia visiva, che diventa esperienza e memoria della caducità del mondo. Come ha scritto Camilla Martinelli sul suo lavoro “la potenza visiva delle immagini di Egger è data dall’attenta scelta dei soggetti, che rifugge ogni forma di narrazione e documentarismo per privilegiare la forza espressiva degli interni così come la monumentalità audace degli esterni”. Egger ci suggerisce di guardare l’uomo di profilo, l’opera dell’uomo di lato, perché l’uomo è sempre presente anche se immediatamente non lo si riconosce.

 Luca Scarabelli

 

 

Ulrich Egger, 1959. San Valentino alla Muta, Bolzano. Vive a Merano. 

Tra le ultime presenze in mostra: Das verborgene Museum, Palais Mamming Museum (Merano). CArD contemprary art&design, Pianello Val Tidone (PC). Kunstforum Unterland - Galerie der Bezirksgemeinschaft Unterland, Egna, (BZ). Kunsthalle West, Eurocenter, Lana (BZ). Villa Reale di Monza (MB). Karl-Franzes-Universityof Graz. Five Gallery, Lugano.

 

 

 


Guido Lovisolo, Ilaria Viale, Turi Rapisarda

dal 16 Dicembre 2018  al 26 Gennaio 2019

 

LA MOLE, Torino 2018, pellicola ortocromatica ai sali d’argento, 200x250 cm

CAMERA OSCURA NOMADE, Torino 2016

 

Una camera obscura è allestita al IV piano della Manica della Cavallerizza Reale in Via Verdi 9 a Torino. La fotografia nasce dallo scambio di luce tra due corpi, due capolavori (modelli di opere d’arte): Il Museo Vivente della Cavallerizza Reale e la Mole Antonelliana (ora Museo del Cinema). L’uso nobilitato dell’arte restituisce la centralità al luogo.

 La fotografia non è simulacro di un oggetto materiale ma è soprattutto  linguaggio, trascrizione di un pensiero. La superficie trasparente è attraversata dallo spettro di luce riflesso che penetra dal foro stenopeico. Il supporto prevede la registrazione di una traccia prodotta dai raggi visibili e invisibili. In questo scenario la camera obscura pare far rifermento a un luogo oscuro di natura del tutto diversa: la psiche. Occorrerebbe - suggerisce Rosalind Krauss - un tipo di luce molto speciale per poter penetrare in questo luogo attraverso un’apertura e catturare, grazie alle sue emanazioni ciò che vi accade per mezzo di una serie di tracce. In occasione della mostra presso Surplace sarà presentata un’azione performativa di attivazione di una camera oscura nomade per produrre ritratti con l’utilizzo della luce “indossata” dal soggetto (es. accendino, torcia del telefonino, etc.) su pellicola ortocromatica ai sali d’argento in dimensioni variabili.

 

 

 


Samira Guadagnuolo

dal 28 Ottobre al 1 Dicembre 2018

 

Il lavoro di Samira Guadagnuolo ha a che fare solo in apparenza con la memoria; è un equivoco questo che si potrebbe attribuire alla sostanza del medium da lei usato. La memoria, nel senso del ricordo, dell’impronta del tempo, è infatti una patina che aderisce involontariamente alle pellicole, alle fotografie di repertorio che Guadagnuolo assembla, ritaglia e rimonta. Si tratta invece di ricostruire una narrazione minimale a partire da immagini che più che il ricordo, restituiscano semmai una perdita di memoria originaria, come fossero parole spaiate di un testo frantumato e antico che l’azione di un tardo demiurgo riordina in una sequenza suggestiva, nuova, quasi onirica. Lo scorrere delle immagini nei lavori di Guadagnuolo riflettono inoltre sul linguaggio del cinema, sulla narrazione in quanto successione, ma non sono propriamente cinema; certo del cinema si avvalgono in quanto luce, proiezione e magia del movimento, ma ne tradiscono il mero scopo narrativo della sequenza che ricalca e restituisce il fluire del tempo. 

È un lavoro di recupero. Si recuperano i mezzi; gli strumenti del mezzo. Si recuperano le tecniche. Il ritorno all’analogico tradisce un desiderio di manipolazione dell’immagine singola, del fotogramma in quanto apparizione significante di per sé. Centrale nella poetica del suo lavoro, nella sua tecnica di allestimento è la citazione storica del luogo: il buio della sala, la vibrazione della pellicola, il baluginare intermittente della proiezione, il proiettore che si palesa nell’ambiente come presenza meccanica, con il suo rumore, il suo essere macchina. L’immagine, come apparizione fantasmagorica, si ripete ossessivamente, restituendo sì la sensazione del movimento, ma minimale e ripetitivo, suggerito più che palesato, come se non avesse spazio di manovra, come se vibrasse, come si trattasse più che di narrare la realtà, di congelarla in una dinamica di senso vicina alla materia dei sogni. La tecnica cinematografica, seppur si avvalga di un felice ritorno al fare artigianale, si inscrive inoltre in una pratica più complessa, fatta di tagli, sovrapposizioni, montaggi incrociati, che si ispirano sì alle avanguardie di primo novecento, ma che si arricchiscono di riferimenti letterari, poetici e personali complessi. L’idea della doppia proiezione tende a negare ulteriormente il fatto cinematografico, si tratta in definitiva più che di mostrare (o di raccontare), di allestire, di predisporre una macchina delle sensazioni, un setting dove proiettare (in un gioco di specchi) le nostre emozioni, il nostro ricordo rimosso.  

Cesare Biratoni

 

Samira Guadagnuolo è nata a Dar Es Salaam, Tanzania.

Dopo il rientro in Italia, ha frequentato Pittura all’Accademia di Brera e si è specializzata alla Scuola di Cinema di Milano. Ha scritto e realizzato film brevi e sperimentali. Negli anni, col suo lavoro, ha partecipato a diversi festival; il lavoro presentato a Surplace nel 2018 è stato ospite della Mostra Internazionale del cinema nuovo di Pesaro e del focus sul cinema sperimentale italiano al Marienbad Film Festival.

 


Olinsky

dal 16 settembre al  21 Ottobre 2018  

 

Surplace presenta una mostra di un artista che opera da tempo ma che ancora si misura con il proprio tempo, mescolando nei contenuti dei suoi dipinti l’attualità e quello che si è lasciato alle spalle, finanche un po’ di quello che accadrà. Nato nella seconda parte dell’ottocento, attivo fin dall’inizio del secolo scorso, incontra a metà degli anni’40 un personaggio Disney, “Mickey Mouse”, che ne cambia fin da subito l’operatività, influenzando enormemente tutta la sua ricerca e diventando la sua ossessione. L’arte dei maestri, da sempre guardata da Olinsky con ammirazione, inizia a contaminarsi con la presenta di Topolino, che passa dal fumetto all’arte alta, come omaggio estremo ad un eroe immaginifico, un gesto d’amore per un plagio tutto emozionale. Olinsky dipinge storie di topolini ambientati in bellissimi e morbidi paesaggi, storie per immagini, rarefatte e semplici, e nello stesso tempo pregnanti e dirette, non rispetta confini di spazio né di tempo, si trova a suo agio in ogni epoca. La sua forza è appoggiarsi ai temi e ai tempi e farli propri per articolare un punto di vista personale e distintivo. Il suo topolino (o i suoi topolini - si moltiplicano con le storie… -) mingherlino e filiforme è il protagonista, ormai da molti decenni, di una pittura eclettica praticata come attraversamento dei generi, contraddistinta da uno stile e da un atteggiamento distaccato, con un linguaggio che rende la pittura stessa sovratemporale, un po’ stravagante e irreale, e pop quanto basta. Il gioco di realtà e finzione fa assumere ai sui soggetti una carica ironica, la messa in scena delle storie testimonia una precisa scelta d’ordine psicologico di indagine della storia dell’arte perché Olinsky ha sempre molte cose da raccontare. In fondo il Topolino di Olinsky e lui stesso, sono un ready-made, Olinsky ha proprio il fisico da commediografo concettuale. Dandy snob e ruffiano, modello massificato che ci prende in giro ammiccando una naturalezza da personaggio mitico, Olinsky è la biografia riunita di molti artisti,  è un pittore che si guarda bene in giro e viaggia molto anche se è sempre chiuso ed esiliato nel suo atelier a dipingere. Warhol disse una volta che avrebbe voluto essere per 15 minuti il longevo Olinsky. Oggi conosciamo il suo lavoro attraverso l’operatività critico-autoriflessiva di Paolo Sandano, depositario dell’oggetto sociologico Olinsky e dell’intera opera olinskiana, suo attento biografo e mentore, instancabile divulgatore della sua opera e pittore lui stesso. 

In mostra un grande dipinto “La fête de la soupe” ispirato dall’opera di Watteau e alla struggente malinconia di un secolo dorato; Watteau eccelso pittore di feste galanti e giochi, capace con l’artificio tecnico e coloristico di ricreare la natura e la sensazione del reale. 

Olinsky nel suo percorso culturale e pittorico toglie a quel secolo, e forse anche al nostro, cipria e talco, e anche le buone maniere, rivede e rinnova la pittura a suo piacimento per dipingere l’ultimo raggio di luce  opaco della pittura occidentale. 

Luca Scarabelli

 

 

Le prime testimonianze su Olinsky, misterioso pittore di origini slave, risalirebbe alla fine del XIX secolo. L’artista tiene mostre nelle principali città europee, finché nel 1946, in un’edicola della gare de Lyon, acquista un numero di Topolino e ne rimane folgorato. Da quel momento si dedica alla creazione di un nuovo stile che mescola arte disneyana e arte europea. L’ultimo posto in cui è stato visto è Budapest. Qui vive in un prestigioso palazzo sul Danubio. Dal 1995 ad oggi il suo lavoro inizia ad avere successo tra i collezionisti d’Europa ma negli anni Olinsky si ritira in totale isolamento e avrà rapporti con il mondo esterno solo attraverso la cauta mediazione del suo biografo italiano, il Prof. Paolo Sandano attuale curatore dell’archivio.

 

 


Pietro Vischi e la casa editrice affrontano il grande pubblico

9 Settembre 2018                             

 

In una sfera d’azione perlopiù privata e sanamente dilettantesca, con rare incursioni pubbliche, Pietro Vischi autoproduce agili libretti in non più di 20/25 copie ciascuno, spesso ispirati da spunti di carattere autobiografico che si cristallizzano in parole e/o immagini.

Gli autori di spicco della scuderia sono Pietro Vischi, Pietro Vischi fotografo e vasco p. Meno consuete le collaborazioni con altri soggetti, reali o fittizi. La distribuzione dei libretti “ad amici, parenti & conoscenti” opportunamente selezionati è assolutamente gratuita ed è affidata alla celerità della PIETROVISKI DISTRIBUTION. In visione a Surplace una ricca e calibrata selezione di materiali prodotti in più di venticinque anni di attività.

 

Pietro Vischi è nato a Orzinuovi il 14 aprile 1956. Nel 1991 ha fondato la casa editrice di cui a tutt'oggi è principale animatore.

Attività espositiva: la casa editrice, dintorni & contorni, Biblioteca comunale, Cantù (CO), 1992; Pagemakers, ex opificio Gaslini, Pescara, 1993; De-scritti: i libri, oggetto del vedere, Libreria-galleria Il Punto, Vittorio Veneto (TV), 1994; Stazione Topolò/Postaja Topolove, Topolò (UD), 1995 e 2001; Museo Teo - La tribù, Viafarini, Milano, 1996; Attracchi, Palazzo municipale, Agrate Brianza (MI), 1997; Pimperepetenusa Pimperepetepam, Liceo artistico Frattini, Varese, 1997; Frank is Back!, Casa di tolleranza, Milano, 2006; Estremi del libro d’artista, Cripta 747, Torino, 2009; Little Big Press, Istituto Superiore Antincendi, Roma, 2011; Ephemera, documenti, ornamenti e pizzini, Riss(e), Varese, 2013. Più recentemente, in qualità di curatore: Mostra personale, Associazione culturale Sal(v)iana, Saliana (CO), 2012 e Vasco Petricig - Crisi d’identità, Spazio d’arte la dERIVA, Colico (LC), 2018.

 

 


Tiziano Doria / Sebastiano Gazzato / Eva Reguzzoni   

 dal 24 Giugno al  28 Luglio 2018                             

 

Tiziano Doria recupera le immagini e le fa sue rifotografandole. Il lavoro è un’azione minima, silenziosa, quasi velata, un doppio sguardo che non è copia, ma che cambia un po’ le cose e sedimenta sulle superfici la suggestione di una storia che si perde nel tempo, mai rivelata abbastanza e nella quale ci siamo imbattuti per caso. Blindo è il frutto di una riproduzione in macro di scene tratte da documenti in Polaroid, quindi una restituzione di un’immagine in oggetto.

Lalopunk è il personaggio protagonista delle storie avventurose, destrutturate, senza causa-effetto di Sebastiano Gazzato; un viaggio spaziotemporale di parole e segni che si incrociano sottolineando strutture e ripetizioni, rapporti ritmici, quasi a dirci che la vera storia dei suoi disegni è tutta lì in superficie, nell’effetto spaziale e nel decorso temporale del processo del disegno, giusto prima del significato delle cose.

Sollevare, distinguere e girarci intorno è l’opera di Eva Reguzzoni, arazzi decorati con segni che si contaminano l’un l’altro, che disegnano la superficie in un complesso di forme in continua espansione, fili di ricami che s’intrecciano sottosopra, dentro e fuori la superficie, così che il lavoro modula leggermente anche lo spazio, attraverso sovrapposizioni e trasparenze,  una crescita organica, metafora di coinvolgimenti e struggimenti emotivi, di segni quasi psichici,  che sommuovono l’apparenza della superficie con movimenti istantanei senza riposo.

 

 

Tiziano Doria, Venosa (PZ), 1979, vive a Milano. 

Sebastiano Gazzato, Mirano (VE), 1973, vive a Milano. 

Eva Reguzzoni, Gallarate (VA), 1965, vive a Borgoticino (NO).

 

 


Loredana Longo

dal 27 Maggio al  21 Giugno 2018  

V for Victory

a cura di Lorenzo Madaro

 

Il ricorso, in ambito artistico, alla verbo-scrittura e quindi all’essenziale forza comunicativa e visuale delle lettere dell’alfabeto è un’intuizione che in età contemporanea si deve ai futuristi: per primi – con una metodologia ben teorizzata – gli artisti capeggiati da Marinetti hanno infatti compreso l’autonomia del messaggio concettuale e della resa formale della parola (stampata tipograficamente e/o disegnata) slegata dalle immagini. I paroliberi hanno pertanto aperto la strada alle esperienze che i poeti concreti, soprattutto dagli anni Sessanta, hanno saputo formalizzare con ulteriore efficacia, come rivelano anche alcune esperienze italiane, da Mirella Bentivoglio ad Arrigo Lora Totino, e internazionali. Poi c’è la pubblicità, che – come spesso accade – ha da sempre compreso pionieristicamente il valore del messaggio “nero su bianco”. Ma, soprattutto dalla fine dei Sessanta, il ricorso alla scrittura slegata all’immagine è divenuto un punto cardinale fondamentale per molte ricerche artistiche, di comune radice concettuale, in differenti geografie, basti pensare alle esperienze di Joseph Kosuth o di Maurizio Nannucci, che sin dalle opere germinali hanno ribadito lo stretto nesso esistente tra concetto e comprensione dello stesso, nell’orbita della sua medesima fruizione. Scrivere una parola o una frase vuol dire fissare nella mente – di chi la scrive e di chi la legge – un determinato concetto, senza mediazioni, rinunciando alla volontà di stabilire un diaframma tra l’opera e lo spettatore, e – al contrario – evidenziando il desiderio di intervenire nella costruzione di un rapporto diretto tra questi due emisferi. Loredana Longo padroneggia il valore della comunicazione verbo-concreta e comprende il peso specifico delle parole, oltre che delle immagini. A questa grande orbita, densa di diramazioni complesse e precise specificità, che vede la parola al centro dell’operazione artistica, appartiene anche il suo ciclo di opere Victory, che in questa mostra da Surplace assume ulteriori conformazioni, poiché l’artista ha concepito un intervento site-specific. Victory, da almeno un triennio, caratterizza l’operatività dell’artista come un capitolo maturo del suo lavoro concentrato verso la sintesi di ciò che contraddistingue la sua ricerca, ovvero un’indagine verso le differenti declinazioni culturali, politiche e sociali della realtà. Dopo aver rintracciato dallo straordinario archivio di internet immagini legate alla cronaca, al multiculturalismo, all’immigrazione e ad altri scottanti ambiti politico-sociali del presente, le ha ricostruite incidendo le superfici di grandi velluti e affiancandole, appunto, alla parola Victory. 

Un paradigma, questo lemma, paradossale, così come la sua posizione nelle immediate vicinanze di scene cruente, legate piuttosto a un’idea di fallimento della società e delle grandi potenze politiche mondiali che di vittoria in senso stretto. Loredana Longo lavora proprio su quel confine liminale che separa le differenti letture del presente, su quel transitorio ambito in cui vigono le regole del paradosso. Lo fa (spesso) anche con i materiali, facendo convivere opposte fazioni, come ad esempio la preziosità dell’oro e la temerarietà grezza del mattone (nelle sue ultime opere), affiancando ciò che ha valore a ciò che, comunemente, viene considerato senza qualità. D’altronde sono ambiti che appartengono alla sua pratica, vitale prima che artistica, quelli legati alla coesione di registri apparentemente opposti. 

Cosa vuol dire vincere? È una delle possibili domande che ci pone quest’opera, le cui lettere sono state invertite per concepire “YROTCIV”, quindi Victory, ma scritto alla rovescia. Sono queste le lettere che il visitatore vedrà entrando nello spazio espositivo: Longo le ha tracciate sulla parete bianca utilizzando i colli delle bottiglie rotte, lasciando sul fronte esterno la parte sfregiata e sul pavimento i residui. Sono possibili reliquie di un mondo distrutto, tracce di un’azione, avvenuta durante l’allestimento dell’opera, che è un altro leitmotiv della pratica artistica di Loredana Longo. La performance, difatti, per l’artista presume un gesto forte, talvolta violento (e quindi di rottura, anche reale, di ciò che è attorno), com’è accaduto per le sue Esplosioni, documentate in un recente volume monografico.  Victory-vittoria: è un vocabolo che solitamente ipotizza agonismo, probabilmente lotta, forse una guerra, in ogni caso una competizione. Vincere è un verbo che appartiene alla collettività sin dagli albori, perché è allegoria di un percorso di confronto, con se stessi e con gli altri. E poi è, soprattutto, un diktat, che il comune sentire reputa imprescindibile nel percorso di ognuno. È con questo dato prestabilito che tutti noi siamo forse stati educati, sin da piccoli, e anche perciò per Loredana Longo la convivenza tra immagini cruente e Victory rientrava, nei suoi lavori precedenti, in una denuncia degli assurdi paradossi che contrassegnano la nostra epoca. In una produzione coeva di sculture, di varie dimensioni, liberandosi dalla forza narrativa delle immagini l’artista si è concentrata esclusivamente sul valore simbolico di questa parola. Le lettere delle sculture Victory sono state poi puntualmente sbrecciate manualmente dalla stessa artista. 

Questa volta la paradigmatica parola – pensiamo a quanto siano diffuse le frasi pronunciate dai grandi protagonisti della storia, da Giulio Cesare a Che Guevara, in cui è ricorrente il concetto di vittoria – è stata costruita con i resti di una lunga serie di bottiglie distrutte, perciò si continua a intervenire sulla precarietà della forma per ribadire la centralità di un concetto, che attualmente è forse ormai privo di significato, perché divenuto simbolo di una resistenza collettiva e di una competizione a tutti i costi ormai senza senso. La rinuncia all’immagine, il ricorso a una terminologia che appartiene alla dottrina militare, allo sport e alla vita: Victory, nei frammenti di vetro, vive la precarietà di una enunciazione che è ormai divenuta antitesi di se stessa. 

Lorenzo Madaro

 

 

Loredana Longo (Catania 1967, vive e lavora a Milano) 

Diplomata in Pittura all’Accademia di Belle Arti di Catania, prosegue il suo percorso seguendo un concetto da lei stessa denominato “Estetica della distruzione”, in cui realizza installazioni, performance spesso documentate da video e fotografie. 2018/ Same same but different, Kunst Merano e Museo Civico di Castelbuono, Palermo/ Piedediporco, Francesco Pantaleone, Milano, 2017/ Victory, la mattanza, Consolato Italiano a New York/ Due South, Delaware Contemporary Museum, Wilmington, USA Victory, Francesco Pantaleone arte Contemporanea, Palermo, 2016/The Mdina Cathedral Contemporary Art Biennale, Malta, 2015/ Nel mezzo del mezzo, Palazzo Riso, Palermo, 2015/ My own war, GAM, Palermo, 2014/ Un été sicilien, Chateau de Nyon, Svizzera, 2013/ Violence- XV Biennale Donna- PAC- Ferrara, 2012/ Secret Gardens,  Tent, Rotterdam/ WUunsch und Ordnung, Ausstelungsraum Klingental, Basel, Svizzera, 2011/ Festarte Videoart Festival, MACRO Testaccio, Roma, 2010/ Inmotion 2009, Biennal Internacional de Performance i Arts Visuals Aplicades, CCCB, Spagna, 2009/ AIM, International Biennale, Marrakech, Marocco, 2009/  Tina B., The Prague Contemporary Art Festival, Praga, Repubblica Ceca, 2008/ Abracadabra, Italian Institute of Culture, Madrid, Spagna, 2008/ Gemine Muse International, Benaki Museum, Atene, 2004/ XIV Quadriennale,  Anteprima, Palazzo Reale, Napoli/ Echigo Tsumari Art Triennal, Tokio, Japan.

 

 

 


Marco Neri

dal 29 Aprile al  23 Maggio 2018  

#city #siti

                           

La città di Neri è quella in cui l’architettura è usata come un pretesto per costruire un immaginario che ci riallaccia al nostro vissuto quotidiano; una sorta di “metafisica del quotidiano”, per richiamare Franco Solmi e una sua mostra del 1978.

La città italiana è composta da strutture semplici che si fanno molteplici nelle dimensioni per la possibilità che offre lo schiacciato, tecnicamente è realizzato dalla sovrapposizione di fogli di cartone, alcuni immediatamente riconoscibili per il loro colore neutro e intransitivo, altri invece dipinti. 

Vediamo palazzi, facciate di strutture percorse da una serie di finestre, come se fossero nuvole osserviamo il loro comporsi e disfarsi, a seconda di come tira il vento in quota, in immagini di cose che ci sono familiari. Ogni attimo è unico e non è per sempre, come lo sguardo che supera le cose e che ci permette di immaginare mondi, poiché come scrive Rancière “l’immagine non è mai una semplice realtà”. Dietro a queste immagini troviamo una storia che ci ha formato la visione, la Città ideale ad esempio e i paesaggi che negli sfondi delle scene sacre, da Giotto in poi, definiscono i luoghi rendendoli un universale: da Piero della Francesca a Giorgio De Chirico o Mario Sironi, passando dal razionalismo italiano e dalle facciate del Terragni,  fino alle vedute di Guido Guidi e di Luigi Ghirri, un retaggio tutto italiano. Questo immaginario per Marco si è tradotto in cicli pittorici pregiati e significativi, come Mirabilandia, Quadro mondiale, l’astrazione di Windows e Pluriboll, Nero di Marte, o ancora i Giardini, realizzati con nastro adesivo. Nelle opere presentate a Surplace, un minimo accento cromatico emerge come trademark, una bandiera italiana, un ritratto simbolico del “paesaggio italiano” inserito in un paesaggio urbano - Marco se ne intende di bandiere, a partire dal famoso Quadro Mondiale, presentato sulla facciata del Padiglione Italia del 2001 in occasione della 49a Biennale Internazionale d’Arte di Venezia, Platea dell’umanità.

Indicativo è quindi vedere un paesaggio nelle righe e nei quadratini che ordinano le sue superfici e che, nel principio della ripetizione differente e delle corrispondenze, organizza forme che si stagliano sullo sfondo piatto, bloccate in un certo stato di sospensione, fissate in un’immagine che ci dice di un luogo inclassificabile, che non appartiene al dominio della realtà ma forse dell’utopia.  Talvolta è a partire dal vissuto personale che si costruisce una visione sia storica che culturale, rigeneratrice di un passato che ci rende unici. Relazioni elementari di elementi base, che poi leggiamo come finestre, muri, facciate, diventano giochi formali e piani che si intersecano e si sovrappongono modularmente e rettangoli irregolari, in cui le transizioni dei colori sono nette, uniti in una configurazione cromatica dove ogni cosa è al suo posto, ordinata. Paesaggi costruiti da sostanza cromatica, che rinvia ad un significato mondano, alla superficie che trattiene il colore e alla pienezza di una rappresentazione pittorica che trasporta le cose in un altro spazio, quasi sonoro, che si dilata, risuona, oscilla e si distende. Città italiana è una serie di opere in cui il senso della costruzione è manifesto, geometrico, praticabile anche nello sguardo attraverso scarti e deviazioni, percezioni ortogonali, e un ottimo lavoro di sintesi. In questa linearità c’è una dimensione del fare pittura quasi affettiva, un fare che è personale ma assolutamente condiviso con gli artisti del passato, una eredità in cui ciò che si è “dimenticato a memoria” riemerge come specificità pittorica, che si trasforma in memoria del territorio, in un paesaggio secolare che ci chiama ancora ad ammirarlo e a sentirlo. L’effetto figurativo è appunto una misura antica, risplende nella nostra storia nel rapporto colore-luce-forma. Nella città italiana di Neri lo sguardo si ancora per poi dissolversi, come nelle sue famose bandiere, che non sono bandiere in sé, ma paesaggi simbolici, culturali, che non riflettono nessun agire tanto sono calmi capisaldi della pittura contemporanea.

Luca Scarabelli

Marco Neri

(Forlì nel 1968, vive a Macchia Libera nella Puglia garganica)

Partecipa a numerose esposizioni in Italia e all'estero, tra le quali: Futurama, Centro per l'Arte Contemporanea Pecci, Prato (2000); Figuration, Rupertinum Museum di Salisburgo e al Museion di Bolzano (1999/2000). Tra le principali mostre personali: MuseoLaboratorio in Città Sant'Angelo (2015); Galleria Alfonso Artiaco, Napoli (2014); Centro Arti Visive della Fondazione Pescheria, Pesaro (2012); Galleria Pack, Milano (2011); Galleria Alfonso Artiaco, Napoli (2010); Galleria Fabjbasaglia, Rimini (2008); Omissis, Centro per l'Arte Contemporanea Luigi Pecci, Prato (2006); Lucas Schoormans Gallery, New York (2006); Galleria Emilio Mazzoli, Modena (2004). Nel 2001 su invito di Harald Szeemann, partecipa alla 49a Biennale di Venezia, Platea dell'Umanità.

 

 


Maria Morganti

Dal 11 Marzo al 21 Aprile 2018  

simili, non uguali

           

 

Non bisogna avere paura del colore, sentirlo distante, dimenticarlo, abbandonarlo. L’opera d’arte nel suo essere proiezione di un fare immaginifico è il luogo in cui il colore dimora, anche quando è al limite della sua visibilità. Si dice che, in un punto preciso dell’arcobaleno, forse dove si incontrano e mescolano il giallo e il verde,  il colore non abbia un nome tanto è indefinito. Si tratta di un colore che non puoi raccontare in termini percettivi, ma solo pittorici; un colore che dimora sul piano pittorico: colore colorito e corpo pittorico. 

Nelle scuole si studia il colore a partire dalle sue proprietà scientifiche: divisioni in settori, cerchi cromatici e piramidi, schemi che traducono il sentire del vedere. Maria Morganti ha grande cura per il colore, lo costruisce attraverso il fare, lo pensa e sviluppa come corpo e ha una particolare attenzione per la superficie. La sua tavolozza non è quella della scienza e della tavola del manuale dei colori, il suo colore non ha un numero Pantone, non è codificato perché attinge allo stato più profondo del sua presenza. È un colore che oltrepassa la luce e diventa materia, una materia viva, che fa superficie e diventa spazio. Anche se i colori non sono “reali”, il suo è un colore reale, non un colore prodotto dalla lingua. Un colore sostanza, un colore denso che rende visibile la materia. È il colore dipinto, un colore che si vede e si sente. Un colore pesante, come si nota in assoluto nell’opera Quadro infinito, una tela 50x40 iniziata nel 2006 e ancora in corso, sulla quale Maria – in una sorta di mantra quotidiano – lavora tutti i giorni, un’opera in cui tanti colori diventano uno,  uno che in questo caso non significa solo. Il colore succede, Maria Morganti lo dichiara più volte, nel suo succedere il colore prende la forma che vuole, la distanza dalla visione che vuole, e diventa materia di un’esperienza non solamente percettiva ma anche fisica, nella quale il senso è tutto nel farsi e nello sviluppo di possibilità sempre aperte. Il suo quadro può sempre diventare altro, il giorno dopo, quando il tempo sedimentato ricomincia scorrere e a sovrapporsi in infiniti istanti che si ritrovano poi sotto la superficie. In colore segue sempre l’evento e ogni momento in cui Maria dipinge è sempre come la prima volta. Il colore sembra che l’aspetti per rinnovarsi. Il tempo del cambiamento è molto sentito dai colori. In mostra viene presentata una piccola raccolta delle sedimentazioni, piccole tele (16X18 cm) che cominciano sempre con il colore rosso (Io sono il rosso, dice Maria) coperto poi da vari strati di altri colori trovati mentre si dipinge, senza una particolare progettualità nella costruzione del colore, se non quella di fermarsi poco prima del bordo superiore, nella periferia dello sguardo, per lasciare intra-vedere il colore sottostante, una manifestazione del processo del dipingere, cosi fino all’ultimo strato. Qui ci si immerge dentro il colore, nella comune attrazione delle sue tinte più inaspettate, nei contrasti decisi o nelle consonanze sfiorate, nelle opacità di colori che ci appaiono quasi innaturali e altri unici, assoluti e irriproducibili. In un certo momento della storia delle stratificazioni arriva un colore che si preoccupa di essere l’ultimo, il colore finale che ci restituisce quello che si vede. Nell’insieme raccontano il gesto del dipingere nella forma della similitudine che non raggiunge mai l’eguaglianza, una differenza quasi biografica tanto il colore è segnato dall’esperienza. Presente in mostra è anche un piccolo lavoro della serie Residui, Traccia N.1 1999-2018, un brandello del foglio di Scottex sul quale Maria Morganti ha pulito le mani ogni giorno dal 1999 al 2016 dopo avere lavorato alle sue Carte-Diario con i pastelli ad olio. Infine, Dodici stati di melma un dipinto sequenziale composto da un colore grigiastro, derivante dal deposito che si è formato negli anni sul fondo del suo sgocciolapennelli. Fare pittura è anche andare a toccare i punti più nascosti e impossibili della sua genesi, un tirar fuori materia-colore preparato dal tempo per renderlo presente. 

Luca Scarabelli

 

Maria Morganti

(Milano,1965. Vive a Venezia) 

Ha tenuto diverse mostre personali in musei ed istituzioni quali Fondazione Bevilacqua La Masa di Venezia nel 2006 curata da Angela Vettese, ViaFarini, Leporelli, a cura di Milovan Farronato, Milano, 2007; Diario cromatico a cura di Chiara Bertola, Fondazione Querini Stampalia, Venezia 2008; Museo di Castelvecchio, L’unità di misura è il colore a cura di Chiara Bertola, Verona, 2010; Casa Testori, Giardini squisiti con Massimo Kaufmann, Novate Milanese (MI), 2014.  Ha partecipato inoltre a numerose mostre collettive tra cui:  L’emozione dei colori nell’arte, a cura di Carolyn Cristov-Bakargiev, Marcella Beccaria, Elena Volpato, Elif Kamisli, GAM/Castello di Rivoli, Torino, 2017; Èdra, tutta l’Italia è silenziosa, Reale, a cura di Davide Ferri, Accademia di Spagna, Roma, 2015; Autoritratti, Iscrizioni del femminile nell’arte italiana contemporanea, a cura (tra le altre) di Francesca Pasini, MAMbo, Bologna, 2013.

 

 


DIEGO SOLDA' 

Dal 28 Gennaio al 3 Marzo 2018   

Dinamiche

 

Una delle principali caratteristiche delle opere d’arte è il loro “stare per” un soggetto animato, il loro avere a che fare con la vita. La trasformazione della materia inerte in una forma aperta che rimanda al divenire vitale è una pratica peculiare del fare artistico, un processo fatto di gesti ripetuti che nel loro compiersi lasciano tracce, impronte, strati di materia che si sovrappongono. Come descritto nel romanzo di Honoré de Balzac “Il capolavoro sconosciuto”, la stratificazione dei gesti anima l’opera dandole un corpo concreto che Frenhofer, pittore protagonista del racconto, si convince di aver realmente animato grazie al lungo lavoro dedicatole. Il tempo è quindi un elemento fondamentale del fare artistico nel suo compiersi e dell’opera intesa come documento, traccia che tramanda un’azione avvenuta e insieme trascende la propria matrice divenendo corpo autonomo.

La ricerca di Diego Soldà è connotata da una costante riflessione sul lavoro, inteso come rapporto tra azione e prodotto, attraverso opere che esplicitano la stratificazione degli atti e dei processi fisici con i quali sono state realizzate. Si tratta di una gestualità ripetitiva, che nelle ultime opere viene spesso associata a strutture meccaniche che ne amplificano l’oggettiva impersonalità, di cui Soldà sonda l’ambivalenza tra calcolo e imprevisto, controllo razionale e libertà espressiva della materia. Seppur meccanici, i gesti producono piccole differenze, scarti minimi che in una produzione industriale sarebbero errori di produzione, e che invece sono valorizzati da Soldà come segni dell’imprevedibilità con cui la vita esprime la propria valenza creativa. I risultati dell’agire umano vengono quindi ricondotti all’interazione tra volontà razionale ed agenti esterni non prevedibili come le condizioni ambientali, il caso, il destino. Per la mostra a Surplace, Diego Soldà unisce opere che hanno a che fare con la ripetitività del tempo e l’espressività degli elementi accumulati ossessivamente, dagli archivi ai depositi di scarti. L’opera intitolata “30 giorni” si presenta come un archivio di strati di colore inseriti in 30 cassetti, ognuno dei quali contiene gli strati di colore prodotti in una giornata utilizzando un nastro meccanico verticale. La fredda asetticità del metallo con cui è formata la struttura dell’archivio contrasta con la vivacità delle sezioni di colore custodite all’interno dei cassetti. L’installazione “Soqquadro” è formata da innumerevoli stralci di tele dipinte con più strati di tempera di diverse tinte e successivamente accartocciate come fossero scarti gettati via, in modo da produrre delle fenditure che rivelano una ricca stratificazione cromatica. Il gesto che solitamente è associato al rifiuto diviene quindi il completamento dell’atto creativo, con cui Soldà fornisce una sorta di sezione geologica del processo pittorico. Completa la mostra una piccola opera posta sulla parete, in cui una copiosa sedimentazione cromatica, maggiore segno distintivo delle opere di Soldà, va a formare uno spesso blocco di materia aperto da una fenditura centrale che ne mostra l'interno, con una cerniera che ne può movimentare l'apertura. La tradizionale rappresentazione pittorica, che fornisce l'illusione della tridimensionalità nella bidimensionalità della superficie, diviene concreta profondità fisica che si mostra come un corpo fatto di diversi livelli di crescita che si ripetono e sovrappongono. Seguendo il principio di economia cognitiva, la mente elabora pattern mentali che ci fanno ripetere quotidianamente le stesse azioni in modo automatico e inconsapevole, un processo che Soldà mette alla prova suggerendo l’ambivalenza espressiva del gesto monotono, che si produce in modi diversi e che, ripetendosi nel tempo, è comunque unico in quanto esiste in un presente che lo mette in correlazione con ulteriori varianti. Azioni identiche possono quindi generare diversi risultati che possono essere osservati singolarmente, ognuno dei quali dipende dalle condizioni ambientali del momento.

Andrea Lacarpia 

 

Diego Soldà (1981, Arzignano, VI)

Negli ultimi anni la sua ricerca si è focalizzata sulla stratificazione di elementi che evidenziano la processualità del dipingere unita all'estetica della materia. Tra le ultime mostre: 2016, Dimora Artica, Milano; 2014 Cart, Monza; 2013 Galleria Arrivada, Coira.

 

 


FEDERICA PAMIO 

Dal 3 Dicembre 2017 al 21 Gennaio 2018   

 

Li hai visti anche tu?

Può essere, l’ostinazione, un modo di vivere la quotidianità? 

Per diversi anni Federica Pamio sale sul treno locale Milano-Varese, e ritorno. Carrozze traballanti, vetri sporchi, il grigiore di un paesaggio di scarto, polvere sotto il tappeto di quella che appare una periferia senza fine: nell’obiettivo di Federica la nebbia che si addensa sui finestrini cala sull’immaginario, lo tinge di tonalità oniriche. In questa dimensione sospesa e atemporale, ecco l’epifania del quotidiano: un gruppo di cerbiatti ricambiano stupiti lo sguardo della macchina fotografica, fugaci e imperscrutabili immagini di sogno. Gli animali compaiono tra fotografie che sono striature di un verde slavato, pellicole di una campagna devastata dove la memoria individuale è chiamata a surrogare una memoria collettiva per la quale ogni naturalità è vietata, se non nella forma dell’utopia o dell’apparizione fantasmatica; quasi delle note musicali, o un codice dalle cadenze misteriose dettate dalla comparsa o dall’assenza degli animali; un contrappunto sullo spartito dei capannoni e dei binari arrugginiti dell’hinterland. Le immagini di Federica scorrono e si susseguono, quasi mimando gli scossoni delle carrozze in marcia sui binari, ma non sembra esserci un linguaggio, una sintassi che le spieghi, che renda conto e preveda le apparizioni che lacerano ogni tanto la pellicola visiva. Sono lì, ogni tanto, e tanto basti (deve bastare): folgorazioni semantiche nel continuum di una sintassi visiva regolare e meccanica, di puro apparato predisposto alla ricezione dell’immagine che si svela. Non ci sono regole alle apparizioni: la loro natura è puramente contingente, non obbedisce ad alcuna necessità e stride con qualsiasi estetica dell’ordine. Per questo Federica non si stanca di riprendere e fissare, con Ipad, macchina fotografica o fotocamera, questi momenti di bellezza straniante, intensa ed effimera al contempo. I medium tecnologici cercano, per gusto del paradosso, di fissare l’immediato, quello che Barthes chiamava il Naturale. La macchia bianca dei cerbiatti rimane impressa ai margini della retina, tenace come un tarlo che rode la memoria e la costringe a costruire paesaggi incoerenti, storie e utopie di una naturalità che è, paradossalmente, tutta da riconquistare. Un’utopia del tempo più che dello spazio: vive nell’istante dello scatto ma, in questo suo proiettarsi e concentrarsi su un punto, fissa non tanto l’oggetto quanto la sua stessa evanescenza, la sua natura di apparizione effimera, aura di splendore che non trova posto nel paesaggio urbano e nello sfondo percettivo della quotidianità. Non è l’immagine di un Eden perduto e irrecuperabile, ma il sogno di una naturalezza dello sguardo che lotta per ritrovarsi.

 

Federica Pamio (Tradate, 1986). 

Frequenta nel 2011 l’AdBK di Monaco di Baviera. Nel 2015 è artista in residenza a Madrid. Nel 2016 realizza la performance FESTUCHE , riss(e), Varese; nel 2015 la performance Insorgi - Case Nuove e nel 2012 Attempts to Be Others, Milano. Le più recenti mostre collettive si sono svolte tra Milano (Assab One, Triennale), Aveiro (Mà arte), Madrid (Espacio Trapecio) e Varese (Surplace). 

 


TIZIANO CAMPI / SAURO CARDINALI

Dal 29 Ottobre al  25 Novembre 2017                       

 

La doppia personale che Surplace presenta in questa occasione nasce dai rapporti consolidati di amicizia e collaborazione tra i due artisti, Tiziano Campi e Sauro Cardinali, accumulati dall’interesse per un’arte che sa raccontare al di là dell’apparenza delle cose.

L’opera di Tiziano Campi è caratterizzata da una grande apertura alle costruzioni metaforiche, materiali trattati con saggezza plastica e concettuale. Presenta "Quattro stagioni", una composizione di numerose tele in cui è raffigurato un alberello, la cui chioma è costituita da un pezzetto di sapone consumato dall’artista o da suoi amici e il tronco dipinto ad acquerello. Due forme che idealmente hanno in comune l’idea di sciogliersi. Le stagioni hanno qui un suo perché e si distinguono dalla palette dei colori che le richiamano, ad esempio l’inverno presenta alberi con la chioma di sapone bianco e così via con altre associazioni di calore/calore. Altra opera è “Il pisello sulla principessa” anche qui una metafora presa in prestito dalla letteratura per raccontare la misura del cose invertendone misura e senso, per giocare sottilmente giusto tra le righe del significato.

Sauro Cardinali attraverso un lavoro con i materiali sempre protagonisti e con le tecniche compositive indaga gli aspetti nascosti dei rapporti tra individuo e le azioni corali, collettive, unendo pubblico e privato, forma e pensiero, da cui emergono come in un fiume carsico, senso e contenuto e una profonda riflessione sulla natura dell’immagine. L’opera formalmente si apre a suggestioni psicologiche veicolate da una forma precisa, una formalizzazione che a volte cela un’altra forma che la richiama, una ripetizione differente di moduli ritmici quasi musicali, che si aprono alla dimensione temporale, che è quella dello sguardo e della percezione ghestaltica che percorre l’opera, ma sopratutto dell’umore quasi proustaino di un significato che va oltre - giustamente hanno scritto di “trappole semantiche” - che emerge nella nostalgia e in una suggestione di un pensiero fondante il senso l’opera, ancorato a temi e preoccupazioni esistenziali. Cardinali presenta delle forme fredde, scientifiche, spazi illusori che traducono e nascondono parole sopite, strutture segniche astratte che rivelano archetipi e intimi pensieri. In mostra due opere che raccontano tempi diversi, “Rococò” (1988) in cui la forma è allusiva e nasce dalla piegatura di un rettangolo tagliato in parte sulle sue diagonali, una forma “trovata” nel ritmo dialettico tra natura e artificio e “Notte” (2003) in cui la parola si scompone per effetto di un doppio movimento. Il primo è quello della scrittura, una importante parte dell’operatività di Cardiali, su una superficie fatta di tanti bordi serrati, il secondo l’asportazione di una parte di materia in corrispondenza della scrittura. Il riavvolgimento del nastro sottrae così la parola alla leggibilità per riportarla allo stato di puro segno.

 

Sauro Cardinali (Spina, 1951). Dopo un'attività negli anni settanta nel campo della ricerca teatrale che lo vedono fondatore del gruppo" Cronotopo", con il quale realizza numerosi interventi di carattere performativo ed ambientale. Negli ultimi anni, con austerità e rigore prosegue la sua ricerca di un nuovo ordine definito dalla regola, che, lungi dal darsi come limite formale si dispone piuttosto come pensiero e modalità della caduta, della dissomiglianza, del bordo e dell'immagine-vortice. Nel 2001 risulta vincitore del concorso per la sistemazione dell'area di Piazza Augusto Imperatore a Roma, del concorso per un'opera  per la Biblioteca Comunale di Foligno, per un'opera pubblica nella città di Siena e per un lavoro site-specific  per l’ampiamento del nuovo cimitero di Gubbio. 

 Tiziano Campi (Lucca, 1953). Fra le mostre personali " Sposa intonata in rosa", Galleria MXM, Pietrasanta, 2016;  " Trecentotrenta foglie e uno sbuffo di vento" Freemocco House, Deruta, Perugia 2015; "Studio Umberto Cavenago", Brugherio, Milano, 2012. "Eccesso d' autore", Centro per l' arte contemporanea Trebisonda, Perugia 2004; Studio Tommaseo, Trieste 1999; "Campitour", Studio Cavalieri, Bologna,1997.

 

 


DANIELE CARPI

paesaggio nella testa

Dal 24 Settembre al  22 Ottobre  2017                       

 

 

Attraversare il paesaggio con lo sguardo, metterci la testa dentro. 

Daniele Carpi in passato ha realizzato dei lavori indagando il tema della scultura/paesaggio, in questa occasione ribalta il punto di vista  e si immagina un paesaggio/scultura, interpretando il tema con un'immagine che gioca con l’ambiguità della bidimensionalità e della tridimensionalità, con il vero e il falso, con il davanti e il dietro, con la figura e lo sfondo.

Una suggestione di questo cambio di registro e messa in prova dialettica dell’immagine delle opere di questa mostra è stata determinata anche dalla sua visita alla mostra di Stefano Peroli, ospitata a Surplace nella scorsa primavera. Le opere presentate da Peroli mostravano silenziose ed enigmatiche teste, “teste nel paesaggio”, su uno sfondo neutro, un limbo bianco. Carpi pensa per contrapposizione agli sfondi, alle scenografie, ai set fotografici con i backdrops, a ciò che è dietro il primo piano, a tutti oggetti che evocano un’immagine possibile, un “paesaggio” che suggerisce un ambiente dell’agire. L'ambiguità convenzionale del "fondale" ha a che fare con la dicotomia del vero e del falso, della realtà e della finzione, e di questa alternanza a Carpi interessano le dinamiche con cui il nostro sistema cognitivo mette ordine al caos degli elementi, per configurare un paesaggio “immaginato” - cioè interpretato e reinventato dal suo interno – a scapito di un'altro “immaginario” o fantasticato.

Che cos’è il paesaggio? Quando nasce il paesaggio? Lévi-Strauss alla fine di Tristi tropici ne evoca la “grandezza degli inizi”; Petrarca lo concretizza nella sua ascesa verso la cima del Monte Ventoso; i pittori rinascimentali inventano un nuovo spazio con una pittura che porta nel paesaggio, utilizzando il  modello di visione dei pittori fiamminghi, che lo hanno indagato e forse fondato. Ipotizza l’antropologo Matteo Meschiari che la concezione di “paesaggio” sia già presente nella nostra arcaica modalità di pensiero. Questa è l'ipotesi che affascina e permea il lavoro di Carpi, il quale indaga l’idea del paesaggio, accostandosi alle sue origini antichissime, paleolitiche. Il territorio che abitavamo, che cominciava ad essere modellato dall’uomo, il paesaggio, attraversato e riconfigurato dalle necessità di adattamento, ha formato la nostra “forma mentis”, il nostro sguardo e il nostro pensiero nei suoi confronti. In aperta dialettica con il nostro vissuto, il paesaggio ha plasmato il nostro immaginario e il nostro pensarlo che, per necessità, lo ordina e lo interpreta “in fieri”.  

In questo modo, il paesaggio – presente nella mente umana sin dai tempi della sua evoluzione primaria e primitiva – si iscrive come traccia mnemonica e visiva, esperenziale e memorica, astratta e misurata del nostro vissuto, come un "paesaggio nella testa”, che Carpi rinnova e presenta spostando il nostro vedere all'interno del paesaggio stesso.

 

Daniele Carpi (Chiavenna, 1976). Tra le principali mostre recenti “L’imperatore era un vecchio” all’Edicola Radetzky (Milano) e “Nomos" a Dimora Artica (Milano). Ha inoltre esposto presso: PAC (Milano), Museo Civico della Ceramica e della Terra Rossa (Castellamonte, Torino), MAC Museo d’Arte Contemporanea (Lissone), Current (Milano),  Zelle (Palermo), Mars (Milano),  Kunstlerhaus (Graz), Villa contemporanea (Monza).

 

 


GRAND HOTEL

a cura di Serena Fineschi e Marco Andrea Magni

dal 10 al 17 settembre  2017 

 

Grand Hotel è un palcoscenico di formato ridotto, una piattaforma reale dedicata all’ospitalità. è un Hotel per artisti, e più precisamente ospita, raccoglie, accoglie e colleziona forme di passaggio provenienti dalle menti e dagli studi degli artisti invitati. Grand Hotel è un basamento consultabile collocato nello spazio espositivo all’interno del Riot Studio, dove la raccolta degli indizi potrà essere toccata, esaminata, spostata. Negli studi le idee prendono forma, ma prima ancora di appartenere ad un loro destino le cose si muovono, si assemblano e quegli appunti sintetici e potenti vengono appoggiati, appesi, lanciati sui tavoli, chiusi nei quaderni oppure rimangono nelle memorie delle macchine fotografiche.

Grand Hotel parla della forma primaria che assume un’idea prima che sia educata ad opera d’arte, in questa fase sostanza e forma sembrano coincidere in un istante esattissimo. Chiediamo agli artisti invitati di concederci di porre sul basamento ospitale una di queste forme proveniente dal loro studio, per costruire un luogo d’incontro che si popoli di questi elementi primari.

“Non c’è un termine dal quale si parta, né uno a cui si arrivi o si debba arrivare” diceva Deleuze -in dialogo con Parnet- ma forse delle direzioni, degli orientamenti, delle entrate e delle uscite come in un Hotel. Grand Hotel è un attimo dopo l’intuizione e un attimo prima dell’atto creativo. 

 Grand Hotel è un luogo in movimento e nasce nel 2015 da un’idea di Elena El Asmar, Serena Fineschi, Marco Andrea Magni e Luca Pancrazzi. È stato ospitato a Milano, in Via Privata Pantelleria, in occasione di FestivalStudi#1 a cura di Vincenzo Chiarandà, Anna Stuart Tovini, Rebecca Moccia, Claudio Corfone, in collaborazione con freeUnDo, a Siena presso il Complesso Museale SMS Santa Maria della Scala, in occasione di InContemporanea, a cura di Michelina Eremita, al Riot Studio con sede a Palazzo Marigliano a Napoli, per Fuori Quadriennale alla Gallery of Art - Temple University di Roma. 

 

Artisti ospiti

Stefano Arienti, Alessia Armeni, Susanna Baumgartner, Emanuele Becheri, Matteo Bertini, Bianco-Valente, Cesare Biratoni, Vincenzo Cabiati, Giovanna Caliari, Ignazio Campagna, Mirko Canesi, David Casini, Antonio Cavadini, Umberto Cavenago, T-Yong Chung, Gianluca Codeghini, Claudio Corfone, Jaya Cozzani, Ermanno Cristini, Alessio de Girolamo, Fabio Cresci, Mario Dellavedova, Carlo Dell’Acqua, Marta Dell’Angelo, Elisabetta Di Maggio, Raffaele Di Vaia, Elena El Asmar, Serena Fineschi, Orietta Fineo, Joao Freitas, Federico Fusi, Enrico Gaido, Armida Gandini, Michele Guido, Giovanni Kronenberg, Francesco Lauretta, Loredana Longo, Claudio Maccari, Elisa Macellari, Andrea Magaraggia, Valentina Maggi Summo, Marco Andrea Magni, Andrea Marescalchi, Amedeo Martegani, Corinne Mazzoli, Franco Menicagli, Constantin Migliorini, Jacopo Miliani, Concetta Modica, Adriano Nasuti-Wood, Giancarlo Norese, Agostino Osio, Pierpaolo Pagano, Cristiana Palandri, Federica Pamio, Luca Pancrazzi, Pantani-Surace, Luana Perilli, Perino e Vele, Stefano Peroli, Vera Portatadino, Luca Pozzi, Premiata Ditta, Luigi Presicce, Anna Raimondo, Museo Riz à Porta, Filippo Romeo, Remo Salvadori, Luca Scarabelli, Alessandro Scarabello, Giuseppe Teofilo, Alessandro Traina, Eugenio Tibaldi, Sophie Usunier, Alessandro Valeri, Enrico Vezzi, Laura Viale, Virginia Zanetti, Wurmkos.

 

 


Eccentrica immaginaria

UMBERTO CAVENAGO

dal 18 Giugno al 27 Agosto 2017

 

Umberto Cavenago sfida continuamente lo spazio costruendo macchine che sono piccoli mondi immaginari, che prendono forma dalla sua passione per la cultura del progetto, intrecciata con la passione per la cultura artistica. “Eccentrica Immaginaria” è il titolo dell’installazione site specific che Umberto Cavenago ha pensato e costruito per Surplace. Si tratta di una forma dinamica proiettata nello spazio per articolarlo, la sfida è stata quella di trasferire nella realtà un percorso perimetrale di un settore di corona circolare eccentrica rastremata. La parete dello spazio espositivo diventa il “terreno percettivo”, che organizza topologicamente il “materiale visivo”. L’elemento architettonico della parete seziona la forma e crea un confine tra ciò che è visibile e concreto, e ciò che è immaginato e dissimulato. Le  finestre dello spazio, elementi di trasformazione, sono il motivo concreto che ha determinato le dimensioni e la collocazione dell’opera. “Eccentrica immaginaria” è un dispositivo scultoreo che dimora dentro e fuori, una sineddoche visiva dove nessuna materia è data: non ci si può sbattere la testa, ma c’è la sensazione di trovarsi davanti qualcosa. Cavenago riflette così sulle possibilità costruttive di un oggetto ma anche su come lo stesso abita lo spazio e il tempo, invitandoci a camminare nel vuoto dell’ambiente ma dentro un’eccentrica visione.

 

Umberto Cavenago partecipa alla XLIV Biennale di Venezia nel 1990; nello stesso anno espone nella mostra “L’altra scultura” al Mathildenhöe a Darmstadt, al Palacio de La Virreina a Barcelona e al Centro de Arte Reina Sofia a Madrid. Nel 1991 è presente con una sala personale a “Metropolis” al Martin-Gropius Bau di Berlino. Nel 1992 espone alla mostra “Recent Italian Art, al Center of the Arts a Pittsburgh. Nel 1993 al Museo Pecci a Prato presenta un’opera mobile che attraversa gli spazi espositivi. Partecipa alla Biennale di Johannesburg nel 1995; nel 1996 ad “Ultime Generazioni” in occasione della XII Quadriennale d'Arte a Roma. È presente con una sala personale alla 23a Biennale di San Paolo e contemporaneamente con la mostra “Visioni”, alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma. Nel 1997 l’opera “Nastro trasportatore”, è presentata a Le Magasin, Centre National d'Art Contemporain di Grenoble per la mostra “Des histoires en formes”. Tra le esposizioni più recenti si ricordano “Scultura italiana del XX secolo” e “Scultura italiana del XXI secolo” presso la Fondazione Pomodoro. Nel 2011alle Officine Grandi Riparazioni di Torino per “Esperienza Italia 150”. Dal 2015 gestisce uno spazio espositivo indipendente all’interno di una sua installazione permanente “L’alcova d’acciaio”, nascosta in un bosco delle Langhe.

 

 


Jiggling things

ANDREA MAGARAGGIA / MICHELE GUIDO

 

dal 7 Maggio al 4 Giugno 2017 

 

Surplace inaugura domenica 7 Maggio la mostra Andrea Magaraggia e Michele Guido, con due ricerche individuali che pur intrecciandosi e confrontandosi nell’ortogonalità delle direzioni spaziali si sviluppano attraverso diverse traiettorie.

Michele Guido espande il modulo del pavimento ridisegnando l'idea di un nuovo spazio orizzontale, un tentativo, tra i molti possibili, di creare un giardino; Andrea Magaraggia si confronta invece con la verticalità, con forme enigmatiche richiuse su se stesse che sembrano in attesa di un movimento possibile. Questo intreccio costruisce la “storia” di un giardino probabile, immaginabile, attraversato da forze spaziali e materiche che si dirigono diametralmente. Con l’installazione “Victoria Regia garden project _pied-de-poule _2008/2017”, Guido reinventa l’ambiente partendo da un processo che richiama l’arte topiaria. Le sezioni in gesso dello stelo della pianta acquatica vengono posizionate nello spazio per definire la forma di un giardino incastonato nella geometria del pavimento.

Magaraggia con “Avidya”, resina e ferro, 2017, infonde alla scultura un disegno plastico che nasce dall’interno della forma e racconta di implosione e profondità. Ma racconta anche di lentezza dello sguardo che percorre la superficie alla ricerca di un punto d’appoggio sicuro che non troverà, se non nello slancio proiettivo e originario delle forme nello spazio. La mostra comprende la partecipazione di Luca Pozzi, che su invito degli artisti ha individuato il titolo e l’immagine dell’invito.

 

Andrea Magaraggia (Valdagno, 1984). Nel 2011 è tra i partecipanti di Solid Void, scuola di approfondimento promossa dal progetto Diogene, con gli editors Gian Antonio Gilli e Roberto Cuoghi. Tra le principali esposizioni personali: Musica per organi caldi, Spazio Sanpaolo Invest di Treviglio 2015; L’ordine spontaneo, project room del Museo MA*GA di Gallarate 2014,;Displace, al MAC di Lissone 2013; It makes me tense, MARS, Milan Artist Run Space, Milano 2012;  Ciò che resta, Unosolo project room, Milano 2011. Ha partecipato a diverse esposizioni collettive, tra cui: Errors Allowed, Mediterranea 16 – Young Artists Biennial, Mole Vanvitelliana, Ancona 2013; Viafarini-in-residence, Milano 2013; 96ma Collettiva Giovani Artisti alla Fondazione Bevilacqua La Masa, Venezia 2012

 

Michele Guido (Aradeo, 1976). Nel 1999 frequenta il Centro T.A.M. diretto da Eliseo Mattiacci; dal 2001 al 2006 frequenta la Casa degli Artisti di Milano, dove organizza – con Jole de Sanna e Hidetoshi Nagasawa – “Discussione Aperta: il Concetto di MA”. Nel 2011 partecipa al progetto di residenza “Made in Filandia”. Tra le mostre personali: “Stellaria solaris garden project”, Palazzo Comi a Gagliano del Capo, a cura di Lorenzo Madaro, 2016; “Operadelocalizzata garden project” nel museo Carlo Zauli e nel museo MIC di Faenza, 2014; “Il tesoro di atreo garden project”, con Hidetoshi Nagasawa, Galleria Sara Zanin, Roma, 2015. Tra le principali collettive, “Rilevamenti #1” a cura di Aldo Iori e Bruno Corà al Museo Camusac di Cassino, 2016; “La Torre di Babele”, ex Officine Lucchesi di Prato, a cura di Pietro Gaglianò, 2015; “Biennale del disegno. Krobilos”, FAR a Rimini, 2014; “Senza titolo” galleria Lia Rumma, Napoli, 2013.

 

 


Testa nel paesaggio

STEFANO PEROLI

dal 26 Marzo al 23 Aprile 2017

 

Stefano Peroli è nato a Milano nel 1958. Dopo molti anni espone cinque quadri in questa mostra, che Luca Scarabelli ha felicemente suggerito di intitolare Testa nel paesaggio.

 

Se la verità fosse fuori dalla pittura, preferirei lo stesso rimanere con la pittura…

assistere alla mia sparizione tradotta in concentratissime opere.

Stefano Peroli

 

www.stefanoperoli.com

 

 


Lamed

MARCELLO TEDESCO

dal 6 febbraio al 19 marzo 2017

a cura di Andrea Lacarpia

 

 L'uomo non possiede la forza con cui costruisce la sua civiltà

M.Scaligero

 

La mostra è sviluppata in collaborazione con Dimora Artica, spazio no profit di Milano.

Concentrandosi sugli elementi minimi dell'edilizia e del linguaggio narrativo, Tedesco ritrova gli archetipi primari per delineare una storia alternativa, in cui gli artefatti linguistici che definiscono la realtà contingente vengono rivalutati criticamente. Nel progetto Lamed, Tedesco presenta una nuova serie di opere in cui costruzione e demolizione convergono nel flusso vitale. Il procedimento adottato da Tedesco per determinare la forma delle opere è quello di sottoporle, una volta edificate, ad un vero e proprio processo di demolizione. È questa forza distruttiva, sapientemente governata, a disgregare il cemento e a piegarne i ferri,  fino a condurre le opere alla loro scheletrica evidenza. Questo processo in apparenza così violento, allude alla lotta che il pensiero fa per raggiungere la sua essenza, un'essenza che disintegra e rimuove qualunque rappresentazione dialettica, per ritrovare infine la sua forma  originaria, dove la materia diventa essenzialmente immateriale.  La linea verticale della colonna, elemento tipico delle opere di Tedesco e paradigma dell'architettura come volontà che si contrappone alla forza di gravità, ora si incurva in ampie volute che rendono organica l'architettura, amplificandola in un’eco che si espande dando corpo al vuoto. I componenti edilizi, tondini di ferro, pietra e conglomerato cementizio, fluttuano nello spazio come animali degli abissi, segnati dai processi di corrosione e produzione della ruggine che, con il suo colore rossastro, evidenzia l'azione del tempo.

 

Dopo aver intrapreso un percorso da regista, Marcello Tedesco (Bologna 1979) ha concentrato il suo lavoro sul rapporto che intercorre fra il linguaggio della narrazione contingente e la cornice trascendente della storia. Le sue sculture si propongono come elementi architettonici, legami materici e strutturali tra ciò che l’oggetto racconta di sé e la realtà astratta che esso genera, giustifica e quindi sostiene.

Tra le mostre principali: 2016 Edicola Radetzky, PAC, a cura di Progetto Città Ideale, Milano. Sophie Von K, a cura di Samuele Menin, Spazio 74/b, Milano. Dryer a cura di Gabriele Tosi, ArtVerona 2015 Base, la Stecca, a cura di Mirko Canesi e Stefano Serusi. 2014 Polarities, AV17 gallery, Vilnius. Drawings from Lightnings, a cura di Laura Santamaria,  Kunstverein Neukölln, Berlino. 2013 Nuova Matrice, Dimora Artica, a cura di Andrea Lacarpia, Milano. 2001 Video.it, a cura di Francesco Poli ed Elena Volpato, San Pietro in Vincoli, Torino.

 


Gli argonauti

JOYKIX

dal 11 Dicembre al 22 Gennaio 2017 

a cura di Rossella Moratto

 

Come nasce un’opera d’arte? È una domanda complessa, alla quale non sempre è possibile dare una risposta: un’immagine vista, una notizia letta sui giornali, a volte un suono. Può essere, quasi proustianamente, il rumore del motore entrobordo di un barcone, uno dei tanti che solcano le acque del Mediterraneo con esito incerto a innescare la miccia delle connessioni che trascendono l’evento concreto nella sintesi dell’opera. L’odissea epocale dei contemporanei Argonauti si rinnova, lasciandosi alle spalle la dimensione mitica e spirituale per diventare la metafora del viaggio – quello dei migranti di ogni epoca, passata presente e futura – e della tensione umana verso lo spostamento, spinto dalla necessità della fuga o dal desiderio della scoperta. Un percorso secolarizzato, allo sbaraglio, senza meta. Joykix – scenografo di formazione – traduce queste suggestioni in una messinscena. La nuova narrazione, è restituita nella dimensione ambientale di una maquette teatrale i cui elementi sono nudi indizi, a volte ambigui, di un racconto che non ha un andamento univoco né un finale certo. Un’interpretazione immaginaria che sostituisce alla chiarezza teleologica la contraddittorietà del dubbio. Gli Argonauti, sopravvissuta vestigia della memoria collettiva, sono riproposti in chiave di pura immanenza, rappresentano la condizione umana nel momento di transizione dalla fine della modernità a un presente entropico, come una domanda senza risposta, nella irriducibile tensione verso l’immaginazione di un possibile orizzonte.

 

Joykix, alias Fabrizio Longo, è scenografo e lavora dalla metà degli anni Novanta come progettista di allestimenti. Parallelamente porta avanti la sua ricerca creativa: attivista della scena underground milanese degli anni Ottanta e Novanta, è tra i fondatori del Virus e dell’Helter Skelter di Milano dove organizza attività culturali, artistiche e performative. Nella metà degli anni Ottanta è autore di pubblicazioni indipendenti, attore di numerose performance in spazi pubblici urbani e antagonisti, compositore di sonorità industriali. In quegli anni lavora a serie fotografiche e video super8 indagando le aree industriali dismesse. È tra gli ideatori della rivista Decoder e della ShaKe Edizioni, per cui crea progetti grafici e fotografici. Dal 2008 si dedica all’arte visiva realizzando progetti che utilizzano fotografia, video e sperimentazioni sulla materia.


Frodi e fedi

Marco Andrea Magni

dal 23 Ottobre al 30 Novembre 2016


Questa è una mostra che per la prima volta coinvolge i due spazi di Riss(e) e di Surplace, perchè è una mostra sul doppio che agisce nell’intervallo tra due polarità, forse le due facce del lavoro di Marco.

MARCO ANDREA MAGNI:  Frodi e Fedi parla attraverso l’ovvio e l’ottuso avvicinandosi a una critica della verità celata sotto un impero di piccoli segni. Frodi e Fedi sono delle vere e proprie forme di tempo, interpretate in due spazi espositivi attigui ed eterocronici, quello di Riss(e) e quello di Surplace. Il contenitore di Zentrum diventa un passaggio e un vero e proprio dialogo, che parte dall’ascolto reciproco e da felici coincidenze che vedono nell’empatia delle persone e del luogo una vera e propria pratica incarnata.
Ci sono contraddizioni e antinomie (stabili e mobili) nella doppia esposizione di Frodi e Fedi: un momento di ozio-otium (tema molto caro a Ermanno) e uno di negozio-negotium (nella parte di Luca). Da una parte l’intervallo, un momento di pausa per il pensiero, la possibilità del non finito, la dimensione di fucina; dall’altro la negoziazione verso l’altro, la compiutezza, la ricerca di dialogo serrato con lo spettatore. Mi piace ripetere sempre che la misura di tutte le cose è il nostro stare insieme e che le mie mostre sono quasi tutte delle vere e proprie biografie di un incontro. A Zentrum il corpo sa quello che la testa non può dire. La responsabilità incarnata è sempre una questione di empatia e di arte attraverso delle forme di tolleranza e di inquietudine, per ricordarci ancora una vota che il nostro vero capitale è il tempo e la qualità di questo tempo condiviso in uno spazio reciproco. L’intenzione fa la scultura?

ERMANNO CRISTINI: È una mostra per guardare con le parole di Goethe:“Dove c’è molta luce, l’ombra è più nera”.

LUCA SCARABELLI: Lo spazio centrale, “en meso”, quello proprio degli eroi, si dissolve a favore dell’interpellazione e della partecipazione. Come una periferia comune di scambio, è spazio di visibilità e mondo dove l’intenzione è presenza e la presenza scultura. Una scultura che è una distanza basata sulla relazione.

ALESSANDRO CASTIGLIONI: Questa mostra mi incuriosisce perchè una mia grande preoccupazione è sempre stata quella di ridiscutere i formati espositivi, forzare i limiti dello spazio e di come pensiamo e di come vediamo ciò che pensiamo.

 
Marco Andrea Magni
Diplomato all’Accademia di Belle Arti di Brera. Frequenta il corso in Arti Visive presso la Fondazione Antonio Ratti a Como curato da Angela Vettese e Giacinto di Pietrantonio, con Richard Nonas. Allo IUAV di Venezia partecipa a seminari di filosofia con Giorgio Agamben, di storia dell’architettura con Roberto Masiero e d’arte visiva con Remo Salvadori.
2016: Grand Hotel, Fuori Quadriennale, Temple University, Roma; Principi di aderenza, Castello Silvestri, Calcio; La Pelle, Officina, Bruxelles; 2015: Families of Objects, Abrons Arts Center, New York; Families of Objects, Réunion, Zurigo; Distances, Galerie See Studio, Parigi; Sur Face, FuoriCampo, Miart, Milano; 2014:, Marco Andrea Magni (con Giovanni Kronenberg), Galleria FuoriCampo, Bruxelles; The Art of Living, Triennale di Milano, Milano. 2013: Poppositions, Brass, Bruxelles; Un luogo aperto, Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea Raffaele De Grada, San Gimignano; 2012: Più giovani di così non si poteva, Galleria FuoriCampo, Siena.
 


A collection...

Meghan Boody, Giannetto Bravi, Dario Molinari, Riccardo Paracchini, Carlos Seabra, 

Vera Portatadino, Vittorio Tavernari, Elisa Vladilo

 

dal 25 Settembre al 10 Ottobre 2016

 

Collezionare significa scegliere alcune cose, avvicinarle tra loro e tenerle insieme. È un modo per creare accostamenti e cercare relazioni, per rilevare procedure, riflessioni e affezioni differenti, per valorizzare sensibilità. Collezionare è una forma di presentazione del tempo. La mostra raccoglie una collezione di opere che non è una collezione, ma che potrebbe esserlo. È un appuntamento. Una collezione in potenza.


Quante parole conosceva Shakespeare?

Antonella Aprile, Marion Baruch, Diana Dorizzi, Federica Pamio

 

dal 26 Giugno al 31 Agosto 2016

 

Si può dare una risposta univoca a questa domanda? Si può contare il repertorio totale delle parole che il Bardo ha usato – alcune conosciute e molte anche inventate –, oppure rispondere con un’altra domanda. Una domanda sempre in ritardo.

In questo progetto espositivo l’interrogativo serve ad accrescere la complessità degli intrecci e delle corrispondenze dei lavori presenti in mostra, le loro significative distanze, ma anche le influenze inclusive e contestuali. Il linguaggio, predisposto alla conoscenza, rimane aperto e visionario, si re-inventa, influenza la formazione del pensiero e la visione. Quante parole conosceva Shakespeare?

Antonella Aprile presenta un disegno preparatorio, testimone dell'entropia di un lavoro. L'idea, che alla sua sorgente è chiara luminosa e illuminante, subisce il filtro di una crescente potenzialità di caos, di disordine, reinventandosi come frammento, scheggia di un processo che si svolge in un altrove.

Marion Baruch predispone un racconto sulla forma che è incontro tra la memoria del lavoro sociale e la gravità. È il già fatto che si rinnova, si tratta di una forma di stoffa bloccata per un momento, una figura semplice costruita con un gesto.

Diana Dorizzi sussurra la sua storia in “silenzio”. Accostando l’orecchio al muro, si ascolta un dialogo continuo che l’artista ha con se stessa, scritto negli ultimi anni in un diario e registrato mentre lei stessa lo rilegge per la prima volta.

Federica Pamio con "Studio per stanza disadorna" attua un dispositivo di traslazione e si immagina una wunderkammer svuotata. Omette il contenuto delle meraviglie raccolte per far emergere il vuoto dello spazio occupato e la memoria dell’ostentazione. È lo stupore a cambiare motivo e segno.

 

Antonella Aprile (Teramo). Nel 2009 viene selezionata per la BJCEM Biennale dei giovani artisti d’Europa e del Mediterraneo a Skopje. Partecipa a varie residenze: Salzburg International Summer Academy con Dan and Lia Perjovschi; The Real Presence a Belgrado curata da Dobrila Denegri e Biljana Tomic e l'Artist-Residency Frans Masereel Centre (FMC), Kasterlee, Belgio. Espone a Mumbai alla Sakshi Gallery.

Marion Baruch (Timisoara, 1929). Nel 2013 ha esposto al MAMBO di Bologna e al MAMCO di Ginevra. Nel 2014 da Mars, Milano. Nel 2015 al Kunstmuseum di Luzern. Nel 2016 da BolteLang, Zürich. Alla Galleria Otto Zoo di Milano è in corso una sua personale. In autunno sarà presente alla mostra “L’adresse du  Printemps de septembre a Toulouse” curata da Chirstian Bernard. Nel 2017 al Turner Contemporary a Margate (UK).

Diana Dorizzi (Varese, 1986) Si diploma all’Istituto Italiano di Fotografia di Milano proseguendo anche un percorso formativo di teatro e teatro danza presso il centro di ricerca sperimentale Comuna Baires Milano. Ha partecipato a mostre presso Riss(e),Varese; CRAC Borgo Loreto/sp, Cremona; Hoome gallery, Milano; MIDEC, Laveno; MACZUL Museo de Arte Contemporaneo del Zulia, Venezuela; Spazio 1929 Choisi at a Time, Lugano.

Federica Pamio (Varese, 1986). Nel 2015 è artista in residenza a Madrid con Intercambiador Acart.  Nel 2016 realizza per Riss(e) la performance "FESTUCHE" con Amedeo Martegani. Le sue   mostre recenti si sono svolte alla Fabbrica del Vapore, alla Triennale di Milano, a Madrid presso Espacio Trapézio.


Margini complementari

Ronny Faber Dahl

                                                                 

dal 15 Maggio al 12 Giugno 2016 

 

Lievemente la luce rischiara attraverso gocce di pioggia, dalla finestra brilla scivolando in basso nella notte

Ancora, nella notte solo per guidare

Cantieri edili circondano l’interno/esterno delle città di veicoli parcheggiati, abiti abbandonati, striscioni, vegetazione. Il trasporto del ventunesimo secolo, l'auto, trasporta il lavoratore ogni giorno, giorno dopo giorno, conducendolo liberamente al lavoro. Il districamento sembra essere tuttavia correlato all’enorme quantità di tempo libero.
Lo spazio espositivo è utilizzato come una nuova finestra sulla zona circostante, in cui oggetti e fotografie prendono parte a un silenzioso processo di sottrazione. Realizzati in materiale industriale, frammenti di tessuto sono cuciti e poi depositati a terra, piegati, allungati sulla parete, parte di una manipolazione non finita.

 

Ronny Faber Dahl (1987, Norvegia) vive e lavora tra Genova, Italia e Oslo, Norvegia. Ha conseguito il Master in Fine Arts presso l'Accademia di Belle Arti di Oslo, e il Bachelor degree all’Accademia di Belle Arti di Genova, Italia. Ha esposto in gallerie, musei e spazi indipendenti quali: Nowhere Gallery (2016), Milano; SP333 (2011) e Sala Dogana (2013), Genova; Mediterranea 16, Biennale dei Giovani Artisti (BJCEM 2013), Ancona; Dortmund Bodega (2010), Noplace (2013), Kunstnernes Hus (MFA Visualizza 2015), LYNX (2015) Oslo; Galleri Fisk (2014), Bergen; e Kurant, (2012), Tromsø. Dal 2010 è coordinatore dello spazio artist-run 4235, con sede a Genova, Italia.

 


Holy concrete

T-yong Chung

dal 20 Marzo al 1 Maggio 2016

a cura di Rossella Farinotti

 

Il tempo si è fermato. Ma ha già ripreso a trascorrere con il lavoro di T-yong Chung che ha una stretta relazione con la storia e il passato che interagisce con un presente attivo. L’artista utilizza materiali come il gesso o, in questo caso, il cemento. La materia è testimone di una traccia lasciata dall’uomo. E di tracce qui si tratta: nello spazio di Surplace T-yong sviluppa un’installazione attraverso un corpo di opere iniziate nel 2015 dove oggetti d’utilizzo quotidiano indicano il modello per creare raffinate sculture in cemento, il materiale che, solitamente, l’uomo utilizza per riempire.

T-yong crea un’opera installativa unica composta di una selezione di sculture in cemento di piccole e medie dimensioni poste come all’interno del suo studio, con alcuni elementi apparentemente decontestualizzati verso l’esterno, sul pavimento dello spazio. La relazione spazio/tempo che l’artista congela nelle sue sculture viene messa in discussione dal movimento di queste che, come tracce di un passaggio, non riescono a fermarsi, guardando a un futuro. Questi pieni rappresentano impronte di un percorso operativo che l’artista ha sviluppato attraverso la materia colmando dei vuoti attraverso il cemento. Un vuoto che T-yong rappresenta anche graficamente, realizzando tre eleganti disegni dove il vuoto – creato dall’impressione di una forma sul foglio - dialoga con un pieno disegnato in grafite.

Durante l’opening T-yong lascerà un’ulteriore traccia del suo lavoro che prenderà vita grazie all’artista stesso che, attraverso un’azione performativa, fermerà un momento passato racchiudendolo in una cornice. L’artista, in questo modo, lascia un’altra traccia di sé.

 

 T-yong Chung (1977) è nato a Tae-gu, sud Corea. Vive e lavora a Milano.

Ha esposto in gallerie e musei quali OTTOZOO (Milano), MARS (Milano), CAR projects (Bologna), Galerie See Studio Parigi), Triennale di Milano, Space BAR (Taegu), Museo d'arte contemporanea di Lissone, Fondazione Bevilacqua La Masa (Venezia), Museo Carlo Zauli (Faenza), Madeinfilandia2013 (Pergine Valdarno), Dolomiti contemporanee (Casso), Spazio Morris (Milano),  Museo della città (Rimini), Officina Italia 2 (Bologna), Fondazione Spinola Banna per l'arte (Torino), Piazza San Marco Gallery (Venezia), C.A.R.S (Omegna), Galleria civica d'arte contemporanea (Trento), Galleria comunale d'arte contemporanea (Monfalcone), C/O Care of (Milano), Vianuova (Firenze), AR/GE Kunst (Bolzano), Neon (Bologna).


Paradosso

FRANCESCO CARONE

dal 7 Febbraio al 12 Marzo 2016

 

Non c'è segreto che non sia apparente.

Un segreto non apparente, di cui nessuno si possa accorgere, non è un segreto perché, nascosto, non potrà generare curiosità alcuna; e di certo sappiamo che non esiste segreto che non renda curiosi. Un segreto non apparente è quindi un 'segreto segreto' e lo si potrebbe definire come l'impossibilità di sapere che esiste qualcosa (un segreto) che ci renderebbe curiosi se solo sapessimo della sua esistenza: in conclusione un 'non segreto'. Qualcosa che ha più a che fare con l'inconsapevolezza, con l'incoscienza, con qualcosa cioè di sconosciutoMa segreto e sconosciuto non sono affatto la stessa cosa...è scontato che un segreto, per esistere, debba essere conosciuto da qualcuno, almeno da colui che lo conserverà mantenendolo appunto segreto e che potenzialmente potrebbe svelarlo.

Quando invece diciamo 'sconosciuto', ci dovremmo riferire a qualcosa di completamente astratto, a qualcosa di cui nessuno può conoscere l'aspetto, il contenuto, l'entità; qualcosa di cui tutti ignorano l'esistenza. Ci riferiamo a qualcosa di cui addirittura coloro che per primi ne parlano (qui sta il paradosso) ignorano e non possono conoscere. Basterà infatti che anche una sola persona lo 'conosca' -ecco la differenza con il segreto- per far si che non sia più realmente e totalmente sconosciuto. Nella nostra società vige un sistema per cui le cose sono reali, o per meglio dire esistono, solo in funzione della loro possibilità di esser definite, raccontate, spiegate. Ma come può esser possibile definire e spiegare qualcosa che nessuno conosce? Chi la potrà spiegare a chi, senza essere bugiardo o paradossale? Non ha nessun senso (e per di più è impossibile) definire ciò di cui, non solo non sappiamo nulla, ma di cui neppure conosciamo l'esistenza.   Possiamo quindi azzardarci nel dire che le cose sconosciute non esistono.

 

Esistono stelle sconosciute?         

Esistono quindi stelle che non esistono.         

 

La mia attrazione per loro rimarrà ancora una volta un segreto.         

 

 

Francesco Carone (Siena 1975) lavora principalmente con la scultura e la grafica.

È ideatore di Tempo Zulu, progetto con cui da anni invita artisti e operatori culturali italiani ed internazionali a lasciare un contributo permanente sulle pietre della pavimentazione delle vie di Siena.

Dal 2012 collabora all'organizzazione di Made in Filandia. Nel 2014 ha dato inizio a TITOLO l'edito inedito, opera/mostra/biblioteca suddivisa in dieci 'capitoli' e per il momento giunta al terzo. Il 13 Febbraio 2016 inaugurerà a Siena Museo d'Inverno, uno spazio per l'arte a programmazione stagionale, ideato e diretto insieme ad Eugenia Vanni.

 


Meglio sul proprio culo che sui piedi (Buffoli VS Breviario)

GIUSEPPE BUFFOLI

dal 20 dicembre al 24 Gennaio 2016

 

Gli incontri nascono da affinità elettive, le stesse che legano gli elementi chimici in natura. Sono però affinità più leggere che sottendono legami celati, pensieri comuni, affetti e prossimità che, a prima vista, possono sembrare apparentemente incongrue. Lo stesso accade per le opere d’arte. Così un disegno lieve e quasi impercettibile incontra una scultura in bilico e diventandone inaspettatamente il fattore essenziale della sua momentanea stabilità. Come sul palcoscenico di una commedia dell’assurdo, il tavolo-scultura di Giuseppe Buffoli, che ha perso la sua funzione trasformandosi in macchina celibe e precaria, si protende come un ponte nello spazio verso un disegno ermetico di Sergio Breviario la cui cornice diventa contrappeso che bilancia il tutto: i due oggetti estranei si compensano, arrivando alla stabilità meccanica, nuova configurazione di una convivenza armonica e asimmetrica che sembra contraddire il buonsenso.

Ma una live variazione della massa e del peso altera l’equilibrio delicato e la sproporzione causa la caduta del piano dal suo unico cavalletto.

La scultura, tutt’altro che eterna, è metafora della precarietà e del caso: ha in sé il principio della sua distruzione mentre il suo ideale equilibrio implica il suo fallimento. La scommessa è solo sulla durata, mentre il volto disegnato, uno e molteplice che si offre nelle sue diverse prospettive incurante del tempo, resta a guardare.  (Rossella Moratto)

 

Nato a Chiari (BS) nel1979. Ha frequentato il corso di Scultura, presso l'Accademia di Belle Arti di Brera di Milano dove si è diplomato nel 2003. Nell'estate 2007 partecipa al corso d'eccellenza T.A.M. (trattamento artistico dei metalli). Nel 2002 ottiene, con l'incisione Soprasotto, un premio all'XI Salon Primo. Nel 2009 realizza una scultura permanente per la nuova sezione didattica nel Museo della Scienza e della Tecnologia Leonardo da Vinci di Milano. Tra il mese di dicembre 2009 e gennaio 2010 prende parte alla residenza internazionale per artisti Harlem Studio Fellowship by Montrasio Arte a New York (U.S.A.) dove presenta la mostra Suspended. Vive e lavora a Milano.


CARLO BUZZI

dal 11 Ottobre al 29 Novembre 2015

 

Carlo Buzzi presenta l'operazione The Scream, originariamente presentata in otto maxi affissioni nella città di Milano nel Gennaio del 2015. L’operazione consiste in una rilettura dell'Urlo di Edward Munch. Qui Buzzi (è attore nei suoi lavori) si è ritratto mentre mima il famoso urlo. È importante nel suo processo di lavoro anche la fase della successiva formalizzazione e documentazione dell'operazione stessa, procedura realizzata con medoto e rigorosità archivistica. Accanto alla maxi affissione del soggetto replicata al chiuso in galleria, saranno esposte le copie identiche 1, 2 e 3 di una delle fotografie scelte e appunto formalizzate e il catalogo dell’operazione The  Scream, che completa assieme al ricco sito web personale, il sistema operativo e la prassi comunicativa di Buzzi.

 Conosciuto per i suoi interventi di public art nel contesto urbano, nelle sue operazioni nel territorio urbano si serve degli strumenti propri della comunicazione pubblicitaria utilizzando come medium privilegiato  il comune poster tipografico. L’affissione è composta di solito da un significativo numero di manifesti con lo stesso soggetto presentati  in pubblica affissione, quindi l’operazione è documentata fotograficamente. Il lavoro in seguito è formalizzato con la produzione di un numero limitato di “quadri” composti da riproduzioni fotografiche delle affissioni o dagli stessi manifesti “strappati”.


WHITE ALBUM

dal 13 Settembre al 4 Ottobre 2015

 

Cesare Biratoni, Oppy De Bernardo, Serena Fineschi, Daniele Giunta, Giulio Lacchini,

Marco Andrea Magni, Samuele Menin, Stefano Peroli, Alessandro Traina.

 

Il colore bianco e le sue declinazioni sensoriali sono il pretesto per riunire in questa mostra il lavoro di alcuni artisti che in qualche modo si sono confrontati con il non colore del bianco e altri che sono stati invitati a sperimentare per la prima volta un dialogo con la sua bianchezza senza colore, ma anche con tutte le lunghezze d’onda della luce presenti nel bianco e le sue declinazioni.

Cosa fa pensare alla sua determinazione ad essere un grande vuoto? Ad essere superficie? La bianchezza nasconde qualcosa? Dove inizia o dove finisce il bianco?

Guardandosi alle spalle, sullo sfondo troviamo la copertina dell’album del 1967 dei Beatles, i white paintings del 1951 di Rauschenberg, i tagli di Fontana su tela bianca,  l’ambiente bianco di Castellani, michette bianche e cotone bianco, e ancora la mostra vitalità del negativo del 1970,  la bandiera bianca di Mauri, le sculture di zucchero di Kovanda, le velature dei veli bianchi di Memling, il fondo bianco del quadrato nero di Malevic del 1915, i neon di luce bianca di Flavin, le righe bianche che separano le righe colorate di Buren, e molto altro ancora, compresa la neve, le strisce bianche sulle strade,  la “bianchitudine” e la cultura, con i suoi modi di vedere che condizionano il bianco più che la luce stessa.


It's not a fight, it's not a race

PIERLUIGI FRESIA

dal 28 Giugno al 31 Luglio 2015

 

Pierluigi Fresia è un artista che si avvina molto al lirismo della poesia, una poesia che incrocia immagini silenti e parole scelte con estrema cura.  I suoi lavori non sono semplicemente composti di fotografie e parole in libertà. C’è un forte rapporto tra le due possibilità espressive, un intreccio di senso e di rafforzamento, come se una cosa richiamasse sempre l’altra. L’immagine non è mai muta, le parole sono immaginifiche, e metterle insieme, accordarle, è per Fresia predisporre un ricco apporto di senso alle cose che cadono sotto il suo sguardo. E poi c’è la fotografia, il suo media privilegiato (assieme al disegno), che è sempre evocatrice di storie, come quando l’attenzione è posta su luoghi lontani, lande desolate o boschi silenziosi dove sempre qualche albero cade. L’esistenza si sente, sono luoghi dove la vita gira sempre attorno alle cose, sfiorandole, e quel suono, anche se non presenti, lo sentiamo. Fresia ci fa sentire quel suono, con le immagini. Occorre predisporsi così a un’osservazione silenziosa, assorta, per farsi rapire estaticamente. Se per Benjamin l’aura s’è persa con la riproducibilità, la forza delle immagini e delle parole scelte da Fresia, la rimette al suo posto.

La mostra che presenta da Surplace, è caratterizzata anche dalla presenza di un’opera di Fabio Mauri, accolta da Fresia nel suo progetto, per le ricche suggestioni che ha dato allo sviluppo delle sue ricerche.

 

Io trovo il mondo inverosimile, proprio perché c’è la morte.

Noi siamo tutti qui, tranquilli e… c’è la m-o-r-t-e !!!

La morte è la rottura di ogni tracciato lungo…”

Fabio Mauri

 

Come uno schiaffo improvviso qualcuno o qualcosa ci pone un limite invalicabile, una linea tra l'essere e il non più essere, netta,  della quale non conosciamo, se non forse per approssimazione l'ubicazione topografica sulla mappa del nostro esistere,  nonostante su questa mappa noi tutti si faccia ogni istante cieco  affidamento, esiste poi la possibilità di tracciare  noi stessi tale  netta demarcazione, questa però è un'altra storia…

Ma al di qua di quel limite abbiamo solo un puro concetto,  mancante  di quel carattere fondamentale e  fondante che è l'esperienza diretta, cosa che ci consentirebbe di portare la di lui testimonianza altrove.  Ma oltre questo, cosa diavolo ha a che fare il linguaggio artistico con tutto ciò cosa può aggiungere a un qualcosa che  sostanza non ha, in quanto umanamente (nello spazio vitale) impercettibile, impraticabile?

Forse nulla… dunque TUTTO.

Pierluigi Fresia

Si ringrazia Liliana Dematteis per la gentile e amichevole collaborazione.

 

Pierluigi Fresia, 1962, Asti.

Galleria Martano, Torino;Galleria Milano, Milano; Galleria Studio G7, Bologna; Esso Gallery, New York; galleria Il Ponte Firenze; Mara Coccia, Roma; Galleria Leonardi V-Idea, Genova; Artissima, Torino; Mi Art, Milano ; MIA, Milano; ARCO Madrid; Fotografia Europea, Reggio Emilia. Sue opere fanno parte di collezioni pubbliche e private tra le quali GAM. Torino e MART, Rovereto, AIAP Fondo Mario Piazza, Milano.


the Grand Tour

CARLOS SEABRA

dal 16  Maggio al 21 Giugno 2015                                                                                

 

Carlos Seabra dipinge e disegna persone, paesaggi, oggetti, utilizzando come riferimento le immagini dei mass media, le immagini del vissuto privato e quelle dell’album di famiglia.  Per Seabra il qui e ora affonda le radici nella memoria personale e collettiva e il tempo delle immagini è articolato a quello della storia. Usa queste fonti perché semplicemente sono immediatamente a portata di mano e  il mezzo più facile e diretto per ottenere le rappresentazioni di ciò che gli serve per sviluppare, con una pratica ossessiva, costante e quotidiana, disegni e pitture (come quelli presentati in questa sua prima mostra italiana), immagini concrete di res gestae.  Tra i motivi d’interesse, l’indagine dei processi in cui l'evoluzione dell'economia del mercato globale, è fattore di trasformazione sociale e sottomissione alle leggi dell’accumulazione, e l’attenzione per le dinamiche economiche coercitive che colpiscono le persone, o ancora gli sviluppi sotterranei delle macchine di potere che ristabiliscono l’ordine e il comando attraverso la manipolazione dei sensi e degli affetti.  Il grand tour è visto perciò come una pratica di marketing moderno.

  

Ora tutti in viaggio: turisti, colletti bianchi come ingegneri ambientali, i migranti in un treno sulla strada per il Messico, operai edili in un furgone, africani in piccole imbarcazioni, calciatori e tennisti, studenti e scienziati, russi in pensione, rifugiati di guerra, miliardari californiani in aerei privati, i sapientoni dell’arte contemporanea sulla strada per la biennale e filippini sulla strada per Dubai. Il paesaggio coperto da questi e altri viaggiatori, è ora una cacofonica, un disordine caotico, un lavoro postmoderno creato da un capitalismo imperioso con i suoi accostamenti di focolai in spasmodica costruzione e distruzione, mentre il capitale cerca il plusvalore come un missile guidato. Quando raggiunge il bersaglio, l'esplosione ci colpisce. Le vittime sono persone di diversi paesi e culture che s’incrociano senza guardare e senza capire nulla.

Ora vado in Italia per incontrare i miei amici.

Carlos Seabra

 

Carlos Seabra, 1970, Aveiro, Portogallo.

Il suo lavoro è stato presentato in mostre personali e collettive alla Galeria Braço de Prata, Lisboa; Casa Municipal da Cultura, Coimbra; CAE, Figueira da Foz; Má Arte, Aveiro; Laboratório Galeria, Évora; Galeria Sete, Coimbra; Biblioteca Municipal Rocha Peixoto, Póvoa do Varzim; Casa da Avenida, Setúbal.

Nel 2008 fonda lo spazio espositivo Galeria Mà Arte ad Aveiro. Formata da un collettivo di artisti, mira allo sviluppo, alla conoscenza e alla diffusione dell'arte contemporanea, in particolare nel campo della pittura, con aperture che si estendono ad altri ambiti di ricerca.


Reinhardt

MICHELE LOMBARDELLI

dal 15 Marzo al 30 Aprile 2015

 

Il lavoro di Michele Lombardelli si caratterizza per una costante contaminazione tra i linguaggi visivi e sonori all'interno di una poetica che tocca l'assurdo, il non finito, l'irrisolto e l'obverso. In quest’occasione espositiva presenta opere incentrate sull’uso “medianico” del colore nero, ormai una tradizione consolidata nella sua pratica,  opere in cui la realtà delle cose è resa sfuggevole  e distante.  Il progetto espositivo prevede il dialogo con una presenza del passato, un’opera dell’artista americano Ad Reinhardt, conosciuto per i suoi “Black paintings” in cui il colore nero è un raffinatissimo evento visivo, composto di lievi e minime sfumature, opere che aprono uno scarto sul senso del vedere, su un vedere che assomiglia ad un sentire.

Ad Reinhardt, silkscreen. Printed in Germany by Siebdruck Michel of Dusseldorf and published in Amsterdam in 1972 for inclusion as a special loose insert with the catalogue for the Ad Reinhardt exhibition at the Stadtische Kunsthalle of Dusseldorf, Germany. The exhibition was held for one month (September 1972 to October 1972). Image size: 7 1/2 x 7 1/2 inches (190 x 190 mm).

Questo perché questi neri, non sono solo dei neri, ma oscuri coni d’ombra della pittura,  e come per  l’opera di Michele  Lombardelli, esperienze sensoriali per cui negativo e positivo si mescolano e l’orizzonte relazionale con il conosciuto si spegne. Il Nero nella tradizione occidentale è Saturno fra i pianeti, il capricorno e l'acquario nei segni zodiacali, dicembre e gennaio fra i mesi, il venerdì fra i giorni della settimana, il diamante fra le pietre preziose, la terra fra gli elementi, l'inverno fra le stagioni, la decrepitezza sino alla morte fra le età dell'uomo, il melanconico fra i temperamenti, l'uno fra i numeri e il ferro fra i metalli.

 

 

Adolph Dietrich Friedrich Reinhardt noto come Ad Reinhardt (Buffalo 24 Dicembre 1913 – NY 30 Agosto 1967)

Michele Lombardelli (Cremona, 22 Dicembre 1968) è artista, musicista, editore. È autore di importanti libri d'artista pubblicati ed esposti da istituzioni quali la Galleria Nazionale d'Arte Moderna, Roma; Casa del Mantegna, Mantova; Musée Cantonal Des Beaux Arts, Lausanne; Museo MA*GA, Gallarate; La Triennale, Milano. Tra queste pubblicazioni si ricordano:  A voice comes to one in the dark, monografia edita Sputnik Edition, Bratislava nel 2010; Generale, progetto realizzato insieme a Vincenzo Cabiati, Armin Linke, Amedeo Martegani, Luigi Presicce ed edito da A+M Bookstore nel 2011. Inoltre dal 2003 cura con Paul Vangelisti Poets & Artists Books, prima collana edita in Italia dedicata dalla poesia californiana. Nel 2009 pubblica il suo primo disco solista “Broken Guitars” distribuito da Soundohm. È del 2014 il progetto sonoro “Untitled noise” condiviso con Luca Scarabelli. Tra le mostre personali ricordiamo quelle presso la Sala delle Colonne, Corbetta, Milano; MOT International, London;  AMT| Torri & Geminian, Milano; Bonelli Contemporary, Los Angeles;  A+Mbookstore, Milano; O’, Milano. Hanno inoltre ospitato il suo lavoro:  Assab One, Milano; CeSAC, Caraglio; Chateau de Chillon, Montreaux.


24 ore su 24

LUCA PANCRAZZI

dal 18 Gennaio al 28 Febbraio 2015

 

Ventiquattro ore su ventiquattro la realtà militarizza tutta la mia attenzione protesa alla ricerca e alla costruzione di un’opera frontale e dichiarante, la più semplice e coerente, e che non sfugga per le tangenti e per i bordi, che non scarti di fianco, che non pieghi a destra od a sinistra, che non somigli ad opere già viste od a ricerche già provate, che non scivoli verso il pavimento o verso gli angoli, che non sia frutto solo di errori, di sviste, di cadute o di deboli tentativi, che non assembli scarti di produzioni industriali, che non tenti di somigliare a un design antifunzionale, che non impoverisca la realtà, che non modifichi senza costruire, che non sia solo artigianale, che non rifiuti il segno, che non sia solo didascalica, che non sia anche solo educativa e che non abbia bisogno di una storia sociale per giustificarsi, che non sia solo fotogenica, che sia frutto della mia mano, occhio, mente.

Filandia 2014/15

Luca Pancrazzi

 

Spazio grande, la nebulosa Pancrazzi si espande; spazio piccolo, si concentra. Dopo l’ultima mostra nelle grandi stanze di Assab One, a Milano, in cui ha esposto decine di progetti, oggetti, disegni, diapositive, ritagli, che restituivano l’“atlante” del suo lavoro, una mostra ora che condensa in tre opere il nucleo del suo pensiero, per esporlo in modo diretto, affermativo, frontale, come scrive egli stesso.

24 ore su 24 è la continuità del tempo, il senso della presenza e insieme dell’apertura; il timbro Occhio Mano Mente è la sua punteggiatura, puntualità, interruzione, istantaneità, ma anche moltiplicazione e disseminazione; Error è l’errore come matrice del loro rapporto, di ogni rapporto, la differenza, fosse pure minima, appena leggibile, che invita alla sottigliezza della visione e del pensiero. Esprimendole in tecniche per molti aspetti ormai obsolete – scritta in ceramica, pittura e timbro –, sostituite oggi da corrispettivi tecnologici più aggiornati, Pancrazzi sottolinea che il senso sta per lui altrove: nella forma, che, a sua volta “circolare” – ciò che leggo in ognuna di queste opere è la forma stessa di ciò che vedo –, lungi dall’essere tautologica è invece vertiginosa, ci introduce cioè in una riflessione senza fine.

La circolarità del timbro è dunque la chiave: in realtà anche 24 ore su 24 è un cerchio, quello della giornata che ricomincia dopo ogni 24 ore, e il rosso su rosso dell’Error anche; ma al tempo stesso: perché 24 ore? Ovvero, mentre affermo una continuità, lo faccio suddividendola in unità discrete. E qual è l’errore in ciò che vedo? La scritta? Il fondo? La loro differenza? La risposta sta nella scritta del timbro, nella circolarità che vuole tenere insieme occhio, mano e mente, insomma nell’arte, una certa pratica dell’arte che ostinatamente si afferma come pratica specifica di questo legame.

Pancrazzi lo ribadisce con un certo piglio polemico di fronte ad altre pratiche artistiche attuali, ma in realtà di sempre, che giustificandosi per contenuti e modalità esterne rischiano di perdere questo nucleo e di diventare esercizi applicativi; noi, al suo fianco, appoggiandogli ancora una volta la testa sulla spalla, raccogliamo il suo come un invito a verificare che il rischio sia reale, e a nostra volta per rilanciare che la perdita non coinvolga anche la vertigine.

Elio Grazioli

 

Luca Pancrazzi nasce a Figline Valdarno (Firenze) nel 1961.

Dagli anni Novanta è autore di una ricerca basata sull’analisi del medium artistico, sulle sue ramificazioni, sulle possibilità creative dell’errore e dell’uso composito di tecniche e materiali. Lo spazio metropolitano e il paesaggio, nella loro continuità con lo sguardo antropico che li definisce, sono i temi trattati con più assiduità. Si esprime attraverso la pittura, il disegno, la fotografia, l’installazione ambientale, la scultura, azioni in condivisione con altri artisti e progetti editoriali.

Tra i progetti di collaborazione che lo vedono tra i fondatori ricordiamo: Importé d’Italie (1982), ABCDEFGHIJKLMNOPQRSTUVWXYZ (1993) e, dal 2010, Madeinfilandia.

Dal 1996 viene invitato a partecipare ad una serie di esposizioni internazionali tra cui la Biennale di Venezia (1997), la Triennale di New Dehli (1997), Biennal of Cetinje (1997), Triennale di Vilnius (2000), Biennal of Valencia (2001), Moscow Biennal of Contemporary Art (2007), Quadriennale di Roma (2008). Alcune tra i numerosi spazi pubblici che hanno presentato il suo lavoro: Whitney Museum of American Art at Champion (1998), P.S.1 Contemporary Art Center (1999), Galleria Civica di Modena (1999), Museo Marino Marini (2000), Palazzo delle Papesse (2001), Museo Revoltella (2001), Galerie Lenbachhaus und Kunstbau (2001), GAMEC (2001), Museo Cantonale d’Arte di Lugano (2002), Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci (2002), Zentrum Fur Kunst und Medientechnologie (2003), PAC (2004), MAN (2004), MART Trento e Rovereto (2005), MAMbo (2006), Macro (2007), Vietnam National Museum of Fine Arts (2007), Fondazione Pomodoro (2010), Museo per Bambini  di Siena (2010).


In buone mani

Armida Gandini

dal 14 Dicembre al 10 Gennaio 2015

 

Il lavoro di Armida Gandini ruota da sempre intorno al tema dell'identità -  nella relazione con l'altro e con il mondo -  e attinge a molti ambiti della cultura, dal cinema alla letteratura. Con un'attenzione particolare ai caratteri, all'uomo, ai suoi gesti e alle sue reazioni. Per l'occasione espone la prima fase del progetto In buone mani (work in progress), una serie di 7  fotografie nelle quali rende omaggio agli uomini importanti per la sua formazione con il semplice gesto di una carezza. Con  Siamo i nostri incontri ho realizzato un lavoro coinvolgendo le donne della mia vita. Ho sentito poi l'esigenza di individuare alcune figure maschili che sono state importanti punti di riferimento per il bene che mi hanno manifestato. In buone mani è un progetto iniziato nel 2013 con l'immagine di mio papà e che continua cercando nella realtà quotidiana dei mentori, incontrati concretamente  nella mia esperienza di vita. Nell'epoca dell'evaporazione del padre (Massimo Recalcati), ho avvertito il bisogno di elaborare un percorso sull'importanza delle figure dei padri, sull'arte che attinge all'arte, sul dialogo con i propri maestri e sulla gratitudine.  Le mani del titolo non sono solo le mie che accarezzano, ma soprattutto quelle delle persone che ho scelto come figure guida e alle quali mi affido.

Come diceva Jean Cocteau mi sento Un uccello che canta nel suo albero genealogico.
Armida Gandini

 

Armida Gandini (Brescia, 1968)
Da sempre il tema dell’identità è al centro dell'indagine di Armida Gandini e occupa un posto di primo piano nei suoi lavori, che si sviluppano mediante linguaggi diversi come la fotografia, il disegno, l’installazione e il video.
Le sue opere sono state presentate in gallerie e istituzioni pubbliche come  Pianissimo Contemporary Art (Milano), Fabio Paris artgallery (Brescia), 41 artecontemporanea (Torino), l’Ozio (Amsterdam), Galerie KOMA  (Mons),  Galeria Mà Arte (Aveiro), Art Centre della Silpakorn University  (Bangkok), Mart (Rovereto), Biennale di video fotografia (Alessandria).  Sono presenti in alcune collezioni private e pubbliche tra cui la Fondazione Boccaccio (Certaldo), Premio Combat (Livorno),  MAC (Lissone), Premio Gallarate, Museo MAGA, Gallarate.

Money, Money, Money

VLADIMIR HAVLIK - GIANCARLO NORESE

dal 16 Novembre al 10 Dicembre 2014

 

Una mostra composta da due opere, una per artista, per un dialogo e una riflessione attorno alle dinamiche della relazione con il denaro, attraverso una metodologia “impositiva” che parte dalla commissione di un lavoro ad uno degli artisti (Norese): la produzione di un’opera con il budget di 10 euro. Un pensiero attorno al senso ultimo del denaro, alla sua dematerializzazione, alla sua scomparsa, rappresentato come forza capace di costruire i desideri, ma anche di portare al collasso e verso l’astrazione, i rapporti interpersonali e comunitari. Il titolo “Art is Money” si riferisce a un mondo dell'arte in cui tutto ciò che nasce o viene classificato come arte può velocemente trasformarsi in merce. Il divario tra arte e denaro quasi viene a scomparire...

Vladimír Havlík

 

Così come sono necessarie lingue diverse per dire propriamente cose diverse, ci sono denari diversi per comprare beni diversi. Credo che stiamo vivendo un’epoca speciale, in cui possiamo ancora decidere (per l’ultima volta?), il destino delle cose e “come vogliamo vivere”.
“Denaro” e “lavoro” sono parole che non sono più uguali a sé stesse, sono soggetti paralleli che occupano lo stesso spazio fisico, in dimensioni diverse, in universi coincidenti (…) Considero la morte del denaro come uno spostamento di “universo”, come un tunnel tra l’Ade e Second Life, tra lavoro morto e lavoro vivo, tra rifiuto del lavoro, lavoro come forma di schiavitù e pensiero come forma di lavoro. Se la valuta si è dematerializzata, se l’economia si è finanziarizzata, perché il mondo dei viventi dovrebbe essere diverso da quello dell’isola dei morti?
Giancarlo Norese

 

Vladimír Havlík, Nové Město na Moravě, Czech Republic, 1959. 

Nel 2006 ha avuto una grande mostra retrospettiva a Olomouc e Brno in cui quasi tutta la sua produzione è stata rappresentata. Tra le mostre recenti: Galerie Keller (Olomouc), Galeria Zejście (Krakow -PL), Galerie Parallel, (Praha), Kiehle Visual Art Centrum, SCSU (Minnesota- USA), Center for Performing Arts, Waren, (Michigan, USA), Galerie Open (Bratislava).

 

Giancarlo Norese 

Tra i fondatori del Progetto Oreste e l’editor delle sue pubblicazioni, sin da metà degli anni Ottanta è stato partecipe di pratiche collaborative con altri artisti e con istituzioni, di azioni pubbliche, di progetti editoriali applicati all’arte.  Ha esposto in gallerie e musei quali Villa Medici (Roma), Neon (Bologna), la 42ª e la 48ª Biennale di Venezia (1986, 1999), P.S.1 (New York), Galerija Škuc (Lubiana), Continua (San Gimignano), Viafarini (Milano), Performa07 (New York), Tent (Rotterdam), MAMM (Mosca), Kunsthalle Marcel Duchamp (Cully). Recentemente è stato artist-in-residence a Red Gate (Pechino) e all’ASU Art Museum (Phoenix).